Cultura e tempo libero - 06 luglio 2019, 07:00

Viviamo in un posto bellissimo, pronto da secoli al Pride

Nuova puntata di invito ad approfondire la conoscenza di storie che hanno arricchito Asti, dedicata a tolleranza, inclusione, partecipazione e orgoglio

“...Questo mio innocente amore per quei novizi giunse tant'oltre, che io sempre pensava ad essi ed alle loro diverse funzioni; ora mi si rappresentavano nella fantasia coi loro devoti ceri in mano...”. Alcuni mesi fa, appena si iniziò a parlare di un Pride ad Asti, nella scelta di rappresentare Alfieri come marchio della manifestazione, avevo erroneamente colto il riferimento alla sua passioncella giovanile per i novizi del Carmine, e le belle considerazioni che ne fa nel capitolo terzo della Vita scritta da esso. Capito invece che si voleva rappresentare, tramite l’icona di Vittorio, la città e la volontà, l’orgoglio, non posso che definirla felice scelta.

Il termine omosessualità risale alla seconda metà dell’800: appare per la prima volta nel 1869, in un pamphlet di Karl-Maria Kertbeny, scrittore ungherese. Per accennarne qualche storia astigiana allora, soprattutto per le epoche antiche in cui non vigeva ancora alcuna opposizione tra etero e omo, il vocabolo è sicuramente poco adatto. Andando indietro nel tempo, anche da noi i costumi assai liberali in tema di sessualità di Liguri, Celti e Romani non portarono distinzioni di preferenze prevalenti, per un lungo periodo storico.

Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente fino alla nascita delle autonomie comunali, sia la legislazione civile che il diritto canonico pare non si occupassero di omosessualità. Così fino a Carlo Magno, con un editto in cui esortava a impedire pratiche omosessuali. Editto che non prevedeva alcuna pena, ed aveva più la sostanza di una esortazione, giustificata dalla diffusione dell'omosessualità principalmente tra monaci e suore. Poi, fino a tutto il XIII secolo, null’altro: tempi in cui il valore delle persone era regolato più da virtù, capacità e patrimonio, che da altro.

L’intolleranza via via sempre più feroce, trista fondamenta di quanto ci siamo portati dietro per vari secoli, parte verso la fine del ‘200: gli Statuti astigiani iniziano a prevedere pene di impiccagione valide fino almeno al ‘500. Col Rinascimento nuovo cambio di rotta, partendo dalla "rivolta dei Compagnacci", a Firenze nell’agosto 1512, con l’abolizione delle norme omofobe, anni dopo scomparse anche dagli Statuti di Asti, e perfino un Papa notoriamente gay, Giulio III (1550-1555).

Due testimonianze locali dei tempi mutati, ma non sempre abbastanza, ci portano prima al 1799: "La notte tra sabato e domenica si tentò di rubare ad un oste vicino al Portone di Santa Caterina, detto per soprannome Meza-fomna perché amantissimo dalla sua prima giovinezza di portare ornamenti ed abiti femminili continuamente, sebbene è ammogliato e ha prole". Così l’Incisa descrive un fatto di cronaca sul suo Giornale d’Asti, accorso all'oste dei Tre ciochini, che per quanto sposato e padre, vestiva sempre da donna, sia in pubblico durante la sua attività che in famiglia; sfoggiando anche vistosi ornamenti come scialli di seta, collane e voluminosi orecchini. Antico esempio di transgenderismo. E fin qui tutto bene. Meno bene la storia di Filippo Artico, vescovo di Asti tra il 1840 ed il 1858, accusato strumentalmente di sodomia nei confronti di un chierico, spiacevole conseguenza del clima anticlericale del tempo.

Da allora ad oggi sono stati fatti passi da gigante, libertà, tolleranza ed inclusione iniziano ad essere parte del nostro DNA. Oggi pomeriggio tutti noi abbiamo l’opportunità di dimostrarlo partecipando ad una festa, orgogliosi, non solo di vivere in un posto bellissimo.

Davide Palazzetti