Per accompagnarti nella lettura di questa intervista ti consiglio la canzone Maestro della voce, della PFM, contenuta nella playlist "Orgoglio Astigiano" su Spotify
Conosco Eugenio Carena durante la presentazione del libro di Orgoglio Astigiano a Libri in Nizza. Porto a casa con soddisfazione i suoi complimenti sinceri e ne consegue una chiacchierata in cui capisco di avere davanti una persona con una grande storia di vita. 67 anni, è un controcorrente, un altro inattuale, che non può mancare nella famiglia sempre più grande di Orgoglio Astigiano.
Passo un'intera mattinata nel suo mondo, invaso di libri, arte, cultura, radio, musica, colori. E poi fotografia, ritratti, lampade, piante, poltrone che paiono troni. Da lui parte un flusso di coscienza apparentemente inarrestabile. La sua vita è un feuilleton, un romanzo a puntate. Vale la pena leggerlo.
Eugenio, parlami di te e di quanto è importante la creatività nella tua vita
Dico sempre che mia mamma mi ha messo al mondo 20 volte. Sono stato in ospedale per tanto tempo, a periodi alterni. Mi definirei una persona che ha attraversato il suo tempo, senza esserne stato travolto. L’ho accarezzato, blandito, mi è piaciuto, ho conosciuto persone che ora sono nei libri di storia. Sono curioso, la creatività mi ha salvato più volte da morte certa. Non mi sono ritenuto fuorigioco, nonostante tutte le difficoltà.
Ma come ti potrei definire?
Sono stato e sono artista e scrittore. Sono bibliotecario a Nizza Monferrato da una quindicina d'anni. Mi ritengo un divulgatore... Un divulgatore morbido, ecco.
Il percorso che ti ha portato fino ad oggi? Scommetto controcorrente...
Ho sempre cercato nell’arte il sollievo dall’impervia esistenza. Ho iniziato mille volte l'università, ma non l’ho mai finita. Stavo male solo al pensiero di fare il ragioniere tutta la vita. Ero già folle allora. Quando sono nate le prime radio libere non ho potuto fare a meno di farne parte. Nella mia vita, a parte gli anni in ospedale, ho cercato di compensare quello che non mi veniva dato con la lettura. Anche attraverso il cinema, ad esempio. Una delle mie passioni più grandi, che ho mutuato da mio papà, che è stato un cantante lirico.
Mi racconti un episodio legato alla vita di tuo papà?
Papà era stato deportato. Cantava per i deportati come lui, mentre si lavorava nei boschi. Un giorno lo aveva sentito un gerarca nazista, che gli aveva fatto una proposta. Se si fosse messo a cantare la sera per loro, avrebbe avuto una razione in più da mangiare il giorno dopo. La situazione era andata avanti fino a che a papà non venne un'infezione in gola. Un medico tedesco gli danneggiò poi le corde vocali. Papà riuscì a tornare a casa, cantando ancora qualche volta con l'orchestra del Regio di Torino. Dovette poi fare l'operaio, reinventarsi per sostenere la nostra famiglia.
E tu hai figli?
No, non ho avuto figli e mi dispiace. Ad oggi penso che se hai un tipo di vita un passaggio di consegne deve esserci, per non far andare tutto perduto. Devo dire, però, che ho tanti amici e tanti giovani che mi stanno vicino, a cui cerco di lasciare qualcosa, tra una risata e l'altra, che possa essere coltivato poi nel tempo. Dico sempre che non dobbiamo sapere tutto, ma avere spirito critico. È quello che fa la differenza.
Che rapporto hai con il territorio e cosa ne pensi?
Penso che dovrebbe essere l’uomo che fa il territorio e non viceversa. Ho sempre avvertito una mentalità molto chiusa, che purtroppo si tramanda. La provincia mi sta stretta. Ci sono stati periodi in cui aveva più corrispondenza con le persone che ci abitano. Si dovrebbe pensare a meno retorica e cominciare a trattare bene davvero questo territorio, perché è in corso una grossa strumentalizzazione. Da noi non c’è un centro storico che non sia stuprato, abbandonato. Non è che non amo la mia terra, certo che la amo. La domanda è : "Sono sicuro che la mia terra ami me? Quanto restituisce del mio amore?". Dovremmo amare l'Astigiano e ogni altro territorio, ma imparando che tutto ciò che facciamo resta per sempre. È un discorso di reciprocità. Come in qualsiasi relazione sana; altrimenti è idealizzazione e uno dei due soffre. Inevitabilmente.
"Non uccido l'amore, perché ucciderei me stesso"
E poi Eugenio ferma il flusso e mi dice che scrive poesie.
"Aspetta, te ne leggo una". S'intitola "La stanza di Utopia". Parla di quei momenti in cui avverti che le cose attorno a te non stanno funzionando. Non sono come vorresti. Non sono in linea con il tuo personalissimo essere. Mi colpiscono soprattutto alcune parole. Potentissime. Delicati pugni allo stomaco.
"Chiedo solo di riuscire a capire"
"Non mendico affetto"
"Non uccido l'amore, perché ucciderei me stesso".
Cosa pensi dei controcorrente, dei 'ribelli'?
Ne penso bene se non è una posa. Se è per fare il figo non mi interessa, se hai usato la coerenza per cambiare, allora sì. Mi sono formato da solo e spesso mi sono sentito diverso, discriminato certe volte, ma egoisticamente ne sono stato fiero. Certo, ci stavo male, perché dovevi riuscire a dimostrare agli altri chi pensi di essere, ma sono fiero. Non sono rimasto anacronistico, ma fedele ai miei ideali, che cerco di non tradire. Mi ritengo un controcorrente da sempre. Ho sempre cercato di inventare qualcosa con le parole e le immagini, per farlo diventare mio. Ho sempre lottato per ciò in cui credevo. Come quando sono scappato di casa per andare a sentire il mio primo concerto rock. Avevo il classico aspetto del 68ino quando sono andato a vedere di nascosto dai miei il concerto degli Area, musica che ascolto ancora oggi, tra parentesi. Quella sera comprai un manifesto della band, che ho appeso nel salotto di casa e che ha un grande valore per me. Anni dopo ho conosciuto Patrizio Fariselli degli Area. Pensa che mi ha detto che quel manifesto non ce l'ha nemmeno lui! (ride, ndr).
Come arrivi a fare il bibliotecario a Nizza Monferrato?
Ci arrivo per necessità economica. Papà era morto da poco e mia mamma voleva che stessi sotto una campana di vetro. Oltre che per necessità economiche legate alla contingenza di quel momento, per me è stata anche una forma di compensazione. Avevo provato tanti lavori prima di allora, ma tutto il mio sapere, l'aver accumulato cose, mi avevano portato lì. Non è stato semplice: come ti dicevo prima, sono una persona che si è formata da sola. Prima del bibliotecario, rilevavo i prezzi dei supermercati per una ditta di Milano.
Ti va di parlare della malattia?
Sì, è da tanto tempo parte di me. Si tratta del Morbo di Crohn, ma quando mi ha colpito ero molto giovane e all'epoca non riuscivano a capire che cosa avessi. Dico sempre che ai 20 anni il mio ballo delle debuttanti l'ho fatto alle Molinette. Ero un ragazzo molto allegro, che amava la vita. A un certo punto svengo e da lì inizia un iter infinito. All'epoca non c’erano le terapie: ti guardavano morire. Avrei voluto fare il giornalista, scrivere, vivere di cultura e magari anche insegnarla; mi sarebbe piaciuto stare dall'altra parte della barricata, ecco. E invece mi sono ritrovato legato a macchine, a tubi e a tutti i pregiudizi che ne conseguono.
"Oggi non posso morire"
Come l'hai affrontata, con quale filosofia?
Quando le persone mi chiedevano della cosa, avevo la tendenza a rispondere che "per un'influenza non si muore". Ho toccato un peso indicibile. Non avevo più i capelli e ho passato tanto tempo da solo. E per questo che mi sono inventato dei mondi fantastici, in cui andavo con la testa. Come a rifinirli. Proprio perché non potevo vivere. Accettare quella condizione è stato possibile grazie all’arte. Dover ricominciare a camminare, reinventarsi… azzerare il tempo. Sicuramente non riuscirò ad acciuffare tutto ciò che ho perso, ma oggi mi vedo senza tempo. Mi sono guardato, non esistevo più, ero un filo. Mi sono detto “il tuo corpo non c’è più, ma con la testa non ti potrà mai più fregare nessuno”. Mi sono ripromesso di diventare ciò che sono, e di non impazzire. Mi sono detto "oggi non posso morire".
Non muori perché sei malato. Muori perché sei vivo
Mi vengono i brividi quando Eugenio mi racconta tutto questo. La sua è una storia di vita che ognuno di noi dovrebbe tenere a mente: ogni essere umano ha la capacità di trasformare una tragedia in un trionfo. Di convertire i chiaroscuri della vita in pennellate di colore. Di dire sì a un'esistenza che può diventare meravigliosa. Di costruire mondi paralleli in cui trovare riparo se, in quello reale, sono in corso intemperie fisiche ed emotive insopportabili. Di farci un manifesto con la propria follia, con il proprio essere. Di diventare ciò che realmente è. Di continuare a dire sì a questa vita. Perché, come scriveva Montaigne nei suoi "Saggi": "Non muori perché sei malato. Muori perché sei vivo".
Un consiglio ai ragazzi giovani che cercano se stessi e la propria strada nella vita?
Non sprecate il tesoro dei 20 anni, che io invece non ho avuto a causa della malattia. A quell’età potete fare veramente tutto. Potete dormire per terra in stazione, lavare i piatti al Mc Donald e intanto guardare lo skyline di una città meravigliosa. Buttateci dentro esperienze, anche errori. Un errore a 20 anni è fisiologico. È importante sbagliare, sbattere la testa. Le comfort zone non vanno mai bene. Non abbiate fretta di diventare grandi, siate curiosi e mettetevi in gioco ogni giorno.
Di ragionieri mai esistiti e di Achei sul campo di battaglia: ti accetti per come sei?
La chiacchierata si ferma per un istante.
"Sai, Elisabetta, il ragionier Eugenio non è mai esistito. O almeno, solo su un pezzo di carta".
Mi fa vedere delle foto e dei quadri realizzati da lui. Mi dice che ha sempre amato misurarsi con tutto, pagando perà il fio, un contrappasso strano. Non ha mai avuto riconoscimenti per le sue capacità.
"C’è una parte di me che deve continuare a lottare con se stesso, con la salute, con i mulini a vento. Come se fossi incastrato, ironicamente, in un incantesimo strano. Il mio corpo è un campo di battaglia, pieno di tagli e buchi, come un Acheo andato in guerra. Come esorcizzo? Mostrandomi. Se non sono il primo ad accettarsi, non posso pretendere che gli altri lo facciano. Così invento senza timore, grazie all'arte che magari ti fa accettare figure e messaggi che non accetteresti in altre forme più canoniche".
E allora qual è il tuo segreto per fare della vita un'opera d'arte?
Cercare di rendere eccezionale qualcosa che può apparire normale. Una pennellata di colore sul grigiore in cui sguazza il mondo.