Attualità - 30 aprile 2025, 07:10

Cascina Spiotta: Bruno D’Alfonso racconta la lunga lotta per la verità

Tra memorie negate e giustizia rimandata: “Ho inteso quel mistero come un patto di non belligeranza tra lo Stato e le Brigate Rosse”, racconta il figlio dell’appuntato ucciso nel 1975

Alla Corte d’Assise del tribunale di Alessandria, prosegue il processo a carico di Lauro Azzolini, Renato Curcio e Mario Moretti.

Durante la precedente udienza, l’imputato Azzolini aveva avanzato una dichiarazione spontanea sui fatti del giugno 1975, ammettendo la propria presenza alla cascina Spiotta.

"C’ero quel giorno 50 anni fa alla Spiotta, un minuto breve di 50 anni fa quando tutto precipitò, un inferno che ancora oggi mi costa un tremendo sforzo emotivo condividere, al termine del quale sono morte due persone che non avrebbero dovuto morire, il padre di Bruno d’Alfonso, mi dispiace, e Mara, una donna eccezionale, una compagna generosa e la morte di una persona cara è un dolore incancellabile che ti porti dentro per tutta la vita, per tutti e senza distinzione. Fu un giorno maledetto che non dimenticherò mai”.

Nella giornata di ieri, invece, sul banco dei testimoni ci sono stati i tre figli dell’appuntato Giovanni D’Alfonso: Cinzia, Sonia e Bruno, persona chiave nella riapertura del caso.

"Iniziamo con il 5 giugno del 1975, io avevo dieci anni e mezzo": la notizia della morte di Giovanni D’Alfonso

 “Mi verrebbe da dire finalmente! - così si apre l’interrogatorio del Pubblico Ministero, Emilio Gatti, riferendosi ai lunghi anni d’attesa per Bruno D’Alfonso - Vorrei che lei raccontasse alla Corte i motivi per cui ha presentato quegli esposti. Vorrei che lei illustrasse alla Corte i passi investigativi che ha svolto e da chi si è fatto aiutare”.

Qui inizia il lungo racconto che ha attraversato tappe dolorose della vita familiare, sconvolta dopo i tragici eventi della Spiotta.

La notizia della morte di un Carabiniere con lo stesso cognome del padre era arrivata dalla televisione. Inizialmente, l'errore sul nome - Rodolfo anziché Giovanni - portò a credere che non fosse lui. Tuttavia, si trattava dello stesso luogo dove l’appuntato Giovanni D’Alfonso prestava servizio, dove si era trasferito da circa due mesi e attendeva di portare la famiglia in Piemonte: morì dopo sei giorni di agonia.

“Allora, iniziamo con il 5 giugno del 1975, io avevo dieci anni e mezzo e lo choc della notizia l’ho ricevuto subito, perché sono stato l’unico della famiglia presente davanti al televisore ad apprendere la notizia dal telegiornale. Mi ero attardato a tavola seguendo questa notizia con il nome e il cognome di mio padre e quindi sono scappato di casa, ma poi sono tornato e ho trovato un appartamento pieno di gente: mia mamma, mia sorella Cinzia… lo choc mi ha aperto la mente e da quel momento in poi sono sempre stato così, mi ero ripromesso subito di onorare mio padre il più possibile per cercare la verità”.

Un racconto che attraversa gli Anni di Piombo, passando per ingiustizie e amarezze, come la negazione, all’ultimo momento, della medaglia d’oro al valor militare, declassata all’argento e consegnata a Bruno, appena dodicenne, al posto della madre indignata.

“Il giorno del conflitto a fuoco era proprio l’anniversario dell’arma dei Carabinieri - ha raccontato Bruno - il 5 giugno dell'anno successivo a mia madre venne comunicato che la medaglia non era più quella d’oro. Mia madre per protesta disse ‘no, io non la vengo a ritirare’, e io, a 12 anni, sono stato portato al comando dei Carabinieri e ho ricevuto la medaglia d’argento di mio padre dal prefetto di Pescara”.

Silenzi e versioni diverse: l’indifferenza dello Stato

Bruno D’Alfonso ripercorre le tappe di un’infanzia difficile, di sogni infranti, ripercussioni psicologiche, ma con la speranza di fare chiarezza, di trovare la verità.

“Una morte del genere ha provocato molti problemi, anche a livello scolastico. I sogni si sono interrotti già all’epoca: ho fatto il carabiniere per mia mamma - ha dichiarato durante il suo racconto della vita familiare - Sono diventato giornalista solo tre anni fa perché ho interrotto la scuola varie volte: avevo crisi d’ansia”.

La storia prosegue con l’entrata nei Carabinieri, un modo per continuare l’indagine sui fatti del 1975. Racconta di non essere mai stato contattato dal generale Umberto Rocca, allora tenente, presente quel 5 giugno.

Successivamente, incontrato Rocca, ha chiesto spiegazioni sull'accaduto e ha ottenuto le prime notizie “incerte” sullo svolgimento dello scontro. Rocca gli avrebbe riferito di non aspettarsi la presenza di brigatisti. Tuttavia, quando ha chiesto del fuggitivo, Rocca non è stato mai chiaro, raccontando solamente dettagli non concreti.

“Lui mi ha raccontato tante cose: innanzitutto che non sapeva nulla dell’approccio a questa cascina. Non aveva avuto notizia che fossero lì i brigatisti - continua - Quando gli ho chiesto chi fosse il fuggitivo, non mi ha detto mai nulla. Ha iniziato a fare il nome di Azzolini, ma un po’ a mezza bocca, dopo la morte dell’appuntato Pietro Barberis”

Inoltre, il fatto che l’allora tenente desse sempre versioni leggermente diverse, ha fatto crescere ancor di più i dubbi. E ancora: “Fu Patrizio Peci, al telefono con un collaboratore del generale Dalla Chiesa, a fare il nome di Azzolini”.

Bruno d’Alfonso ha continuato la narrazione della sua ricerca, citando l’importante aiuto di un collega Carabiniere, all’epoca di istanza a Canelli, grazie al quale è riuscito ad aumentare i propri contatti e ad approfondire le ricerche: “Visitai la cascina Spiotta e incontrai anche l’imprenditore Vallarino Gancia, all’epoca presidente della Camera di Commercio di Asti. Ho chiesto a Gancia se avesse riconosciuto qualcuno”.

Secondo la ricostruzione di D’Alfonso, Gancia gli avrebbe detto di essere stato portato al carcere di Cuneo per riconoscere la voce dei brigatisti arrestati. Lì avrebbe riconosciuto qualche voce, ma il generale Carlo Alberto dalla Chiesa gli avrebbe detto: “Se lei vuole campare ancora qualche anno, stia buono dov’è”.

Per Bruno questi silenzi erano dovuti all’epoca, alla paura: “Ho inteso quel mistero come un patto di non belligeranza tra lo Stato e le Brigate Rosse. Negli anni io e la mia famiglia siamo cresciuti nell’indifferenza dello Stato”.

Arrivando agli anni più recenti, menziona la squadra che ha formato con due giornalisti, per cercare tutti gli elementi possibili. In particolare, soffermandosi su un dattiloscritto, che descrive bene le azioni avvenute alla cascina Spiotta, ma che non sarebbe stato ben approfondito durante le indagini dell’epoca.

L’ostinata attività di ricerca culmina nella presentazione di un esposto alla Procura di Torino che ha portato alla riapertura del caso e, nonostante la reticenza manifestata dalle istituzioni per quasi cinquant'anni, D'Alfonso dichiara di avere fiducia piena nella magistratura, con la speranza che si scopra l'assassino di suo padre, dando finalmente voce ai lunghi silenzi del passato.