Clima surreale, nessuna tensione. Si chiude oggi, in via Guerra, il campo rom di Asti dopo quasi quarant’anni, quello che molti qui definiscono “un ghetto istituzionale”, in un silenzio che racconta più di qualunque sirena: pochi presenti, nessun ex residente ancora nell’area, gli operatori dei Servizi sociali, il presidente dell’Associazione 21 Luglio Carlo Stasolla, il sindaco Maurizio Rasero e il dirigente comunale Roberto Giolito a supervisionare un’interdizione ordinata e senza strappi, mentre le forze dell’ordine presidiano senza intervenire, perché non ce n’è bisogno, segno che il lavoro vero è stato fatto prima, con le persone, famiglia per famiglia.
Approccio sociale, non punitivo
“Non ho mai parlato di ruspe o di allontanamenti forzati”, ha ribadito Rasero, rivendicando un metodo che ha messo “prima i Servizi sociali e dopo, eventualmente, la polizia e i lavori pubblici”, costruendo fiducia e progetti su misura per ciascun nucleo, compresi i casi con persone con disabilità, fino a rendere possibile una chiusura senza urla né proteste, “perché ognuno ha avuto un progetto sociale che gli calza a pennello”. In questa scelta c’è la differenza tra sgomberare e superare: la riduzione progressiva del campo, già sceso del 40% nei mesi scorsi, e la gestione accompagnata degli ultimi quattro nuclei, andati via senza resistenza, fotografano una transizione governata e condivisa.
“Se non c’è una data, non riesce”
La svolta operativa è arrivata “quaranta giorni fa”, quando è stata fissata una scadenza e tutte le istituzioni — Questura, Prefettura, Carabinieri, Guardia di Finanza, Vigili del fuoco e Polizia Locale — hanno lavorato “anche il sabato e la domenica” per rispettarla, mentre gli uffici valutavano perfino se procedere con bando o affidamento diretto per le ruspe, a dimostrazione di quanto la macchina pubblica debba essere precisa per essere anche veloce. È la logistica al servizio dei diritti: prima le persone, poi i mezzi, e infine le baracche, abbattute oggi senza più distinzioni tra “cosa resta” e “cosa salvare”, perché l’uscita è compiuta.
Il modello 21 Luglio
Stasolla parla di una “road map” in “sei, sette step” che Asti ha seguito fino in fondo: non slogan, ma diritti umani; non il “mero trasferimento da una baracca a una casa”, ma l’abbattimento di una storia di pregiudizi lunga quasi quarant’anni, contro la leggenda metropolitana che i rom “sceglierebbero” i campi, che sono invece una cultura della povertà e del ghetto. In questo senso, la definizione di Rasero — “la madre di tutte le chiusure” — va oltre l’iperbole: indica la qualità di un processo che “fa scuola in tutta Italia”, perché dimostra che la fiducia costruita porta più lontano delle ordinanze imposte dall’alto.
Dopo il campo, la città
Il giorno dopo è già iniziato. Il Comune ha in campo un finanziamento “superiore al milione e mezzo” per assumere una ventina di educatori che seguiranno le famiglie nell’inserimento condominiale, nelle regole di comunità — dal balcone da non sciacquare con il secchio d’acqua al rispetto degli spazi comuni — e soprattutto nel contrasto alla dispersione scolastica, per fare della scuola il vero ponte d’integrazione per ragazzi e ragazze nati ad Asti, cittadini astigiani a pieno titolo. È un investimento di comunità: educatori come “confidenti”, una presenza quotidiana che tutela il diritto a non tornare indietro.
Terreni, bonifica, lavoro
Il cantiere del dopo non è solo sociale. L’area sarà chiusa con i New Jersey per fermare accessi e scarichi abusivi, poi bonificata; nel frattempo il vicino imprenditore del movimento terra — che ha già contribuito a spianare cumuli e liberare suolo — potrà chiedere di ampliare l’azienda, con ricadute occupazionali.
“È un giorno di festa per la città”, dice il sindaco, ringraziando prima di tutti “gli abitanti stessi che hanno voluto credere in noi”, poi l’Associazione 21 Luglio e, a cascata, l’intera filiera istituzionale che ha camminato insieme, senza scorciatoie né proclami. I presenti oggi sono pochi, quasi una cornice discreta: l’immagine più forte è l’assenza di conflitto, il silenzio operoso, il segno che quando la politica costruisce fiducia, la cronaca può permettersi perfino di abbassare la voce.