io_viaggio_leggero - 01 novembre 2025, 07:00

Workation, quando il lavoro accompagna il viaggio e viceversa

In questa rubrica troverete anche approfondimenti e riflessioni sul mondo Travel. Pensieri a voce alta e considerazioni su nuovi approcci e nuovi orizzonti; nel terzo millennio anche il modo di viaggiare è in continua mutazione

C’è una nuova forma di spostamento che attraversa il mondo contemporaneo. Non è turismo, non è lavoro. È qualcosa nel mezzo, una zona di passaggio dove il tempo si confonde e i confini si sciolgono. È il viaggio ibrido, il modo in cui oggi molte persone scelgono di vivere: continuando a lavorare mentre viaggiano, o viaggiando mentre lavorano.

Tutto è cominciato quasi per necessità. La pandemia ha costretto milioni di persone a spostare il proprio ufficio sul tavolo di casa, scoprendo che la produttività non dipende da una scrivania, ma dallo stato mentale. Quando il mondo ha riaperto, molti non sono più riusciti a tornare indietro. Se posso lavorare da casa, perché non da qualunque altro posto che mi ispira? Da lì, il passo è stato breve: valigia pronta, laptop nello zaino, e connessione stabile come unica condizione. Non si tratta più solo di “smart working”. È un nuovo modo di abitare il tempo. Chi parte non lo fa per staccare, ma per continuare — solo altrove.

La Workation, cioè lavoro e vacanza insieme, non è evasione, ma ricerca: si lavora al mattino, si esplora nel pomeriggio, ci si connette con colleghi a migliaia di chilometri ogni giorno. In questo equilibrio sottile tra continuità e cambiamento, nasce un nuovo modo di esprimersi nel mondo: non quello del turista classico, ma di chi si costruisce una quotidianità nomade, sospesa e fertile. La routine si ricrea, ma cambia sempre scenario. I dati raccontano una tendenza concreta. Secondo alcune ricerche, nel 2024 il 30% dei lavoratori da remoto ha trascorso un periodo all’estero continuando a lavorare. E non stiamo parlando di chi si trasferisce lontano da casa e resta stanziale, perché quello significherebbe solo cambiare indirizzo.

Questa mobilità ha generato nuove esigenze e nuovi servizi: caffetterie con prese ad ogni tavolo, hotel che offrono spazi co-working, appartamenti pensati per soggiorni di lavoro, comunità temporanee che nascono e si dissolvono al ritmo delle connessioni Wi-Fi. Non serve più “staccare la spina per viaggiare”: basta un contratto da remoto, una buona connessione e la capacità di restare produttivi in movimento. Così nascono forme di vita intermedie, dove il concetto di casa si dilata. Una stanza affittata per un mese diventa un microcosmo: scrivania, tazza di caffè, finestre aperte su una città sconosciuta. Il luogo di lavoro si sposta, ma l’impegno resta. Cambia solo lo sfondo, e con esso la percezione del tempo. La Workation non è soltanto comodità o opportunità: è anche una sfida. Richiede equilibrio, autodisciplina, capacità di separare le ore di concentrazione da quelle del vivere o dello svago. Spesso si lavora più di prima, perché non esiste più un confine netto tra giorno lavorativo e tempo libero. Il rischio è la iper-connessione: essere sempre disponibili, sempre raggiungibili, senza mai disattivare davvero la mente. Ma è anche vero che, per molti, questa fluidità rappresenta una forma nuova di benessere. Scegliere dove lavorare significa anche scegliere come vivere. E ogni pausa diventa un frammento di viaggio: un tuffo in mare tra due riunioni, un mercato locale da visitare tra una call e l’altra.

“Lavorare viaggiando” crea un ritmo diverso, dove la produttività non è misurata in ore ma in qualità. La svago non è più un lusso, ma una parte del processo creativo. Chi lavora in viaggio impara a gestire la lentezza: la pausa pranzo diventa un momento per osservare, l’attesa di un file che si carica si trasforma in uno sguardo sul mondo. Le destinazioni, intanto, si adattano. Non servono paradisi tropicali o isole remote: basta un luogo accogliente, con buona connessione e una dimensione umana. In Italia, il fenomeno ha preso forma nei borghi e nelle campagne. Case condivise, co-living e piccole comunità temporanee accolgono chi vuole lavorare viaggiando, con spazi e ritmi sostenibili. Non è un turismo “mordi e fuggi”, ma presenza prolungata: chi resta settimane o magari un paio di mesi contribuisce all’economia locale, conosce le persone, partecipa alla vita del luogo. Il “viaggiatore ibrido” diventa così un cittadino temporaneo: compra al mercato, si fa riconoscere al bar, saluta i vicini. Porta con sé un pezzo di mondo e ne assorbe un altro, in uno scambio continuo.

Il laptop sostituisce la bussola, la connessione è la nuova rotta. Il tempo non si divide più tra vacanza e lavoro ma si confonde, come due correnti che scorrono nella stessa direzione. Il viaggio così non è più una pausa, ma una forma di nuova continuità. Una geografia emotiva, fatta di spostamenti, connessioni, silenzi e finestre aperte sul mondo. Nel 2025, spostarsi può voler dire anche non sentirsi parte di qualcosa. La workation può essere una forma evoluta di libertà, ma anche un modo sottile per fuggire: dal ritmo, dalle relazioni, da sé stessi. Come il pianista sull’oceano che resta sulla nave, forse è un tentativo di abitare il nostro tempo, restando in movimento, per evitare di scegliere un solo luogo. In ogni caso c’è “un prezzo da pagare”… non mettere radici. 

Marco Di Masci