Da mercoledì scorso, 10 dicembre, un Paese, il nostro Paese, raggiunge gli onori di Patrimonio mondiale Unesco per la sua cucina. “Cucina degli affetti”, come ben definita nel dossier di candidatura, che rappresenta un modo unico di vivere il cibo, atto culturale cominciato lontano nel tempo e consolidato nel nostro sistema sociale incentrato sulla famiglia, forte di contaminazioni e differenze, di piccoli borghi e di tradizioni locali dalla gamma infinita, di grandiose tradizioni colturali e produttive dove il termine biodiversità era all’ordine del giorno ben prima d’essere coniato.
La Cucina italiana, sono certo sia più che chiaro a tutti, è il racconto di una comunità che ha custodito,generazione dopo generazione, saperi portati ad eccellenza. Saperi e sapori che, dalla terra alla tavola, portano nel mondo il valore, autentico e tipicamente italiano, di un modello culturale condiviso, costruito, più che tutto, sulla convivialità del sedersi a tavola. “Cucina degli affetti” che è memoria, cura, relazioni e identità, racconto di famiglie, comunità e territori attraverso il cibo.
Ognuno di noi avrà ben chiaro il concetto, quello che ci porta a commentare un piatto come eccezionale quando la scala di vicinanza a quello di nonna tocca il vertice o giù di lì. Sì, giù di lì perché come quelli di nonna è spesso un obiettivo irraggiungibile. Cucina degli affetti e dei ricordi che ci lega un po’ tutti, accomunandoci tra mani in pasta, pentoloni dai profumi celestiali, sorrisi e pance piene.
Ognuno di noi avrà uno o più ricordi gastronomici che riportano ad affetti. Accenno i primi due che mi vengono in mente, nell’invito a fare lo stesso, commentando l’articolo nella sua condivisione social. Il primo sono le mani di Tata Rina, genovesissima donna di casa dai miei nonni materni, maestra di rituali dal fascino unico e dai risultati orgasmici. Tra i suoi cavalli di battaglia, tanto, tanto tipici di un pezzetto di Liguria, ricordo la caccia al tesoro tra i colli a ridosso cittadino di erbe, borragine in primis, per profumare il ripieno dei suoi sontuosi pansoti. Che dire poi del profumo dei gherigli di noce, franti in un grande mortaio in marmo, assieme a qualche pinolo. Gesti, strumenti e ingredienti che ricordavano più una poesia che altro. Poesia ungarettiana, una volta portati a tavola. Il secondo ricordo si ambienta a Montecatini Terme, fine anni Ottanta, in una cena della famiglia Maccioni, ristoratori del posto che avevano fatto fortuna in America e cominciavano dal paese natale un tour mondiale di presentazione del nuovo locale newyorkese. Di quella cena ricordo alcuni grandi piatti della cucina tradizionale toscana, ma prima d’altro la capacità di tutti i componenti della famiglia presenti, padre, madre e due figli sulla trentina, di farti sedere alla loro tavola come ti avessero aperto casa. Peccato che di grandi tavoli rotondi nella sala dell’hotel che ospitava l’evento ce ne fossero stati una trentina, con posti non definiti, a lasciare al caso incontri e racconti, consapevoli che la loro “cucina degli affetti” avrebbe fatto il resto. Mia moglie ed io eravamo finiti con tre coppie di ristoratori del posto e un americano, in smoking, con signora, in ghingheri, ambedue un po’ sulle loro, nonostante la musicale caciara dei sei toscanacci a narrar gloria di tutto e tutti. Solo dopo il terzo degli antipasti, celestiale rivisitazione del paté di fegatini, Maxwell, nome dell’americano, nonostante parlasse un discreto italiano, era esploso in un goduto “that’s Italy”. Sono certo non si riferisse solo ai fegatini. Esclamazione assai condivisa dal tavolo, inconsapevoli che l’entusiasta dopo Maxwell, facesse Milton Rabb, Ambasciatore americano in Italia del tempo.