Moscato d'Asti, Barbera d'Asti e Brachetto d'Acqui stanno soffrendo. L'indotto è consistente, perché i tre Consorzi di tutela delle denominazioni prodotte nelle province di Asti, Alessandria e Cuneo rappresentano il 65% della viticoltura piemontese, circa 9.500 famiglie, con picchi in negativo arrivati, in alcune zone, a dimezzare la produzione. Per questo i Consorzi di riferimento hanno chiesto lo stato di crisi alla Regione Piemonte.
Portavoce della richiesta, inviata all'ente regionale a ottobre scorso, il presidente del Consorzio di tutela del Brachetto d'Acqui docg, Paolo Ricagno. "Per Barbera d'Asti e Moscato d'Asti abbiamo avuto un calo di produzione fino al 30-32%, mentre per il Brachetto siamo a -50%" afferma. Mancano garanzie per il futuro e le prospettive sono tutt'altro che rassicuranti, nonostante il silenzio mantenuto finora. "Abbiamo chiesto alla Regione - precisa Ricagno - un tavolo di discussione e di confronto politico, ma la risposta che abbiamo ricevuto è molto vaga".
I prezzi sono al palo. "Il mercato è stagnante e gli agricoltori stanno soffrendo". Non ci sono più garanzie secondo Ricagno, "siamo allo sbando" e lo dice facendo riferimento alla cancellazione del tavolo paritetico del Moscato, che si svolgeva in Regione, ma che è stato eliminato. Era un tavolo di concertazione fondamentale, in cui sedevano industriali e agricoltori, associazioni di categoria e referenti del mondo vitivinicolo, per stabilire prezzi che andassero bene a tutti. Secondo Ricagno, la crisi del Moscato d'Asti è evidente. "Non si produce più aromatico", e anche per la Barbera non ci sono buone notizie, "c'è assenza di vino rosso" dice.
I vignaioli aspettano una risposta dalla Regione. "Ci hanno detto che dovevano ricevere i dati di produzione di inizio dicembre" precisa il presidente. Quello di cui hanno bisogno urgente i produttori è la dichiarazione dello stato di crisi, "ci serve per le banche" aggiunge Ricagno. "Per il Brachetto d'Acqui docg - aggiunge - la drecrescita dura da dieci anni e sta colpendo duro. Siamo a un punto di non ritorno: o ci risolleviamo o falliamo". Eppure il Brachetto d'Acqui, quelle dolci bollicine che profumano di rose, era molto in voga negli anni Ottanta e Novanta. "Era molto bevuto a Roma, dove nel 1985-1986 ne vendevamo 600 mila bottiglie e anche a Verona. Lo bevevano soprattutto le signore". Per non parlare della moda Brachetto esplosa negli anni Settanta a Trieste, grazie ad alcune aziende produttrici come Bersano e Banfi.
"Se non ci riprendiamo - ammette Ricagno - richiamo di perdere migliaia di posti di lavoro". Per questo i produttori di Brachetto d'Acqui aderenti al Consorzio, circa 850 viticoltori delle province di Asti e Alessandria, hanno avviato una maxi operazione pubblicitaria sui principali canali televisivi nazionali, in vista delle feste natalizie e di fine anno.
"Dobbiamo non solo incentivare i consumi - afferma - ma anche le nostre aziende a venderlo". Stanno tentando l'impossibile, autotassandosi per promuoversi, grazie all'erga omnes. E' una vita quella che Ricagno dedica al vino. "Abbiamo intenzione di far ripartire il Brachetto d'Acqui". E lo stanno facendo producendolo in quattro versioni diverse: quello ben noto, il Brachetto d'Acqui dolce, ottimo con dessert e come merenda, accompagnato da pasticceria secca, dolci e torte; il rosè secco, molto profumato da gustare come aperitivo; l'Acqui Rosè spumante e l'Acqui Rosè fermo, sorprendenti e aromatici al naso, serviti freschi non sono solo gradevoli, ma piacevoli a tutto pasto, da far conoscere e apprezzare perché espressione unica di uno dei vitigni autoctoni che fanno ancora grande il Piemonte del vino.