La filosofia e le sue voci - 10 settembre 2022, 09:30

La Finestrina: lo spazio della commedia

Nuovo appuntamento con le riflessioni di Simone Vaccaro, per la rubrica "La filosofia e le sue voci"

Foto Arena Philosophika

Foto Arena Philosophika

… ei s'è ficcato

Nel cervello, il nostr'Eaco, di andarsela

Filosofistizzando anch'esso: e quindi,

Leggicchiando lor bubbole, stravolta

Gli si è la testa; nè mai pel suo verso

Una ne azzecca nei giudicj…

Vittorio Alfieri, La finestrina, Atto I, scena terza

Cosa si fa quando si giudica? Chi ha il diritto di giudicare? Basta essere giudice per giudicare? Oppure il giudizio è qualcosa che trascende la professionalità del giudicante? E chi giudica i giudici? Cosa significa allora giudicare? 

Bisogna tenere a mente che differenti sono i sensi dell'azione "giudicare": il più immediato è il suo riferimento alla sfera legale. Giudice è chi giudica, seguendo il codice di procedura penale o civile, della colpevolezza o meno di un indagato; giudice è colui che con atto giudiziario ha il potere di trasformare in colpevole un innocente o viceversa; giudice è colui che con un atto linguistico (la formula utilizzata nella lettura della sentenza) fa cose, modifica status, costituisce realtà: compie un atto definito performativo, che dà forma a qualcosa di prima non esistente (cfr., Austin e il suo libro Come fare cose con le parole). 

Già in questo primo senso, si nota quanto il giudicare sia molto più che la difficile applicazione della Legge. Il giudizio si caratterizza per una profonda natura ontologica: attraverso il giudizio si assegnano proprietà e si predicano qualità. La tradizionale formula filosofica S è P ben esprime questa assegnazione. Il giudizio aggiunge qualcosa (P) al soggetto (S) e l'atto è espresso dal verbo essere che funge da copula, da tratto unificante (esattamente come nell'analisi logica che si fa a scuola). Ma cosa possiamo dire su chi pronuncia S è P? Se la formula vale in sé, varrà altrettanto chi la formula? 

Su questo aspetto si sofferma Vittorio Alfieri nella sua commedia incompiuta La Finestrina, portata in scena, in alcuni suoi frammenti maggiormente significativi, sabato 4 settembre presso la Sala dal Podio di Palazzo Alfieri dai partecipanti al Concorso per giovani attori promosso dalla Fondazione Gabriele Accomazzo per il Teatro. 

E se il giudice è un corrotto dormiglione che preferisce i bagordi al suo ruolo di giudice delle anime (Minosse; e poi Eaco e Radamanto)? E se le anime tutte ammesse ai Campi Elisi si trovano a interagire in colloqui surreali degni del miglior Malerba? E se un dio, Mercurio, viene spedito a tirare gli orecchi ai giudici lassisti proponendo uno stratagemma - una finestrina aperta sul cuore a svelare i più reconditi anfratti della propria interiorità - che poi gli ritorce contro? E se il Giudizio Universale e definitivo altro non è che la farsa di un dio che arriva in ritardo in tribunale perché impegnato a sorseggiare una piacevole e sempre allettante cioccolata calda (scena presente nel giovanile Esquisse)? Insomma, e se il giudizio è la forma massima di ipocrisia? 

Una commedia amara quella di Alfieri, e ancora più amara perché ci mette di fronte ad una scelta obbligata: noi giudichiamo e non possiamo fare altro che giudicare ed essere giudicati. E, forse, va bene così. Solo, non lasciamo che diventi una pregiudiziale: non ci sarebbe più spazio per la commedia. 

P. S.

Anche qui i filosofi non ci fanno poi una gran bella figura…

Simone Vaccaro

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