Mi piace andare in palestra.
Tra uno squat e uno stacco una mattina mi ferma Arianna e mi dice che sua cugina ha scritto un libro, che dovrei proprio leggerlo.
Io dico sì certo, ma tanto nell’ultimo anno mi hanno fermata decine di persone dicendomi che il loro cugino/collega/ fratello/ parrucchiere/ pizzaiolo ha scritto un libro e che dovrei proprio leggerlo. A volte li leggo davvero, a volte sono loro che si dimenticano.
Quindi sì Arianna, figurati certo, dammi pure il numero di tua cugina Sara che ci mettiamo d’accordo.
Io e Sara alla fine abbiamo cenato insieme.
Era inverno e faceva un freddo porco e ci siamo infilate in una steakhouse. Luci soffuse, musica alta. Io una mezza scappata di casa perché praticamente in letargo, prendo un’insalatona. Lei un paninazzo svuncio con patatine e per niente scappata di casa. Sara non è alta, è piccina, ha movimenti discreti ed eleganti, un caschetto biondo preciso reciso tagliato sotto al mento. Il panino svuncio dovrebbe gocciolare fino a sotto il mento che quando lo si mangia si è più bestie che umani. Ma a lei no. Sara rimane precisa e fine. Abbiam parlato di un sacco di cose quella sera e anche quando si altera, quando si fa decisa e inflessibile rimane garbata: elaborata e gentile. Una piccola perla che si muove.
Poi mi porge il libro. Sara Cordero mi sta dando il suo “Il tempo condizionale”.
Per mezz’oretta resto in silenzio ad ascoltarla titubante su tutto.
Forse non le piace più, forse è cambiata da quando l’ha scritto, forse non si riconosce più nelle sue parole. Mi chiede perfavore di non aver aspettative, perfavore di abbassare i miei standard, perfavore di non essere troppo critica. Che lei ha ventotto anni e legge Matteo Bussola, mica roba seria, e che quindi di sicuro ha scritto una ciofeca. Proprio così mi dice, una ciofeca.
Che tanto di scrittura e di sogni non si vive. Proprio così le hanno detto, non si vive.
Ragazzi ma io il libro di Sara l’ho bevuto in un pomeriggio.
È un romanzo.
Protagonista femminile, ex amori, nuovi amori, case editrici, genitori bigotti, ritrovare se stessa, fare yoga, andare in terapia, maternità, omosessualità. Certo che non ha scritto una roba spessa come V13 anche perché quello l’ha già scritto Carrère e comunque non avrei voglia di leggerlo adesso.
Però il romanzo di Sara non è mica una roba edulcorata o stoppaiosa eh.
Anzi adesso vi elenco perché dovreste leggerlo quest’estate, subito.
UNO. Riguarda tutti; tutti viviamo, ma stiamo sempre più cercando di uscire, da questo tempo condizionale. “Ho paura che…” “E se poi…?”. Troppi se, troppi pochi momenti presenti. Troppe ansie, troppe aspettative, troppe paranoie.
DUE. Amelia prova ad andare da uno psicoterapeuta. Apre un dialogo sull’importanza della psicoterapia e del prendersi cura della propria salute mentale contribuendo a normalizzarla.
TRE. È un libro che tiene incollati perché Sara ci ficca in mezzo intrecci e dettagli hot che non ti aspetti e crea personaggi completi che poi ti sembra di averli incontrati davvero e si sente che Sara ha un sacco di voglia di scrivere di vite altrui e spero per lei che continui a farlo.
QUATTRO. Quando in questo romanzo succedono cose deprimenti e tragiche lei skippa. Non scrive pagine lagnose e annacquose. Va avanti, fa intendere senza sproloquiare, sa dove recidere. Come il suo caschetto biondo. Precisa e pulita: sarebbe un’ottima killer, Sara.
CINQUE. Sa anche un po' di arancia, di kintsugi, di crostata alla marmellata di bacche rosse, tè al gelsomino, candele profumate, sale dell’Himalaya, shampoo solido, verdure di stagione. Mi è venuta in mente l’Eleganza del riccio.
SEI. Frasi brevi, incisive. Bom, vi dico che è beverino: leggetelo.
Mentre leggevo avrei voluto ci fosse Sara lì con me.
Avrei voluto dirle che nessun autore di cui abbia scritto (e non sto usando il maschile universale) mi ha mai fatto scorgere un po' di insicurezza: sono tutti già affermati, sono tutti già potenziali premi Pulitzer.
Avrei voluto prenderle la faccina e dirle che non si rende conto forse di come è brava a scrivere. A me non interessa chiederti se Amelia sei tu, se il libro parla dei tuoi timori, se sei tu che vivi con la testa tra gattini, colori pastello e tazzine di porcellana e se di questo te ne abbiano sempre fatto una colpa perché “ma dove vivi?” “scendi nel mondo reale” “poggia i piedi per terra”.
È un bel libro sia che prenda ispirazione dalla tua vita sia che no.
Molti scrittori, dopo aver finito la loro opera, si sentono svuotati di senso. È come partorirne un figlio. Solo che non cresce, rimane lì fissato in eterno anche se tu sei cambiata, hai fatto la muta, evoluta in altre cento te.
Su pochissime cose si può avere il controllo.
Ascoltati respirare, sfiorati le mani, c’è un’energia in te che sta solo capendo come uscire.
Se ti piace, continua a scrivere. Che noi leggiamo.
(Mi ha parlato dolcemente della sua editor Giulia Giovannozzi, di Edizioni Effetto e del suo grafico Gabriele Morlacchi. Grazie per il vostro lavoro)