La filosofia e le sue voci - 12 agosto 2023, 09:00

Ancora uno

Nuovo appuntamento con le riflessioni di Simone Vaccaro, per la rubrica "La filosofia e le sue voci"

Immagine elaborata da Arena Philosophika

Immagine elaborata da Arena Philosophika

Non si è mai tenuti a scrivere un libro

Henri Bergson, Pensiero e movimento

L'ipertrofia editoriale con il moltiplicarsi di pubblicazioni (secondo i dati forniti  dall'Associazione Italiana Editori, nel 2022 sono stati pubblicati più di 75.000 libri - fonte bookadvisor QUI); la continua ricerca del prodotto nuovo e innovativo che troppo spesso riproduce stilemi un po' stantii, ma che piace e vende perché in fondo non cambia nulla del panorama nel quale si va diligentemente a inserire; l'ulteriore rubrica a cadenza settimanale che parla di quello di quello che deve parlare o l'ultimo articolo dell'ultimo blog; l'ennesimo post lungo nel quale si critica un po' tutto e tutti. È un dato di fatto: scriviamo tantissimo. E questo è un bene. Un gran bene. Vero, ciò che è realmente importante è cosa e come si scrive, ma il fatto stesso che si decida di scrivere, su di un social, su di una rubrica online o su un blog, su di una rivista o grazie a una pubblicazione che vede la luce come libro, non può che essere un buon segno: l'impegno a elaborare riflessioni, pensieri, emozioni per trasmetterle ai lettori. Ora, se ci spostiamo nel territorio proprio della filosofia, la domanda sul perché si debba o meno scrivere un libro si fa molto interessante.

Concordo con quanto scritto una volta da Deleuze: in un libro non condensiamo il nostro sapere, ma la nostra ignoranza. È come se il volume, fresco fresco di stampa da essere ancora caldo, esalasse il profumo di tutto ciò che esso non contiene. Dei libri non letti e che avrebbero potuto imprimere una svolta all'argomentazione, forse capovolgerla. Delle possibilità non sfruttate dal materiale che si ha avuto l'opportunità di avere sotto mano. Delle cose si sarebbe potuto dire, ma che si sono perse nell'effettiva stesura del lavoro. Insomma, il libro è il distillato di tutto ciò che manca. È una foto al negativo

Ora, tutto questo può sembrare deprimente, ma a ben guardare si tratta, in fondo, dell'esatto contrario. In quanto condensato della nostra ignoranza è l'immagine speculare della nostra consapevolezza: di ciò che abbiamo deciso di scartare, di quello che, invece, abbiamo deciso di valorizzare; della scansione che abbiamo impresso al materiale; della tesi che abbiamo avuto il coraggio di difendere (e quella/e che abbiamo contestato/e). Il libro è il nostro stato dell'arte. Rappresenta il punto in cui si è. È un biglietto da visita; è meglio di un curriculum vitae europeo o di uno tutto precisino e bellino. 

Forse la citazione iniziale andrebbe ribaltata. Siamo tenuti a scrivere un libro non per una esigenza pubblica, per manifestare la propria presenza (e questo è il rischio maggiore dell'ipertrofia editoriale da cui siamo partiti: se scrivi, sei. Non sei se non scrivi, se non pubblichi, se non dimostri di esserci, pubblicando), ma per una esigenza intima, forse egoistica, forse per evadere dalla solitudine, ma genuina: questo sono io, dialoghiamo?

Simone Vaccaro

TI RICORDI COSA È SUCCESSO L’ANNO SCORSO A APRILE?
Ascolta il podcast con le notizie da non dimenticare

Ascolta "Un anno di notizie da non dimenticare" su Spreaker.

Telegram Segui il nostro giornale anche su Telegram! Ricevi tutti gli aggiornamenti in tempo reale iscrivendoti gratuitamente. UNISCITI

Ti potrebbero interessare anche:

SU