Ma che, dunque io dovrò morire un giorno? Come! io morirò? io che parlo, che ascolto, che mi tocco, io potrei morire?
Xavier De Maistre, Viaggio notturno intorno alla mia camera
Domanda-rivelazione! Io posso morire? Ebbene sì, io posso morire. Scoprirlo è traumatico. Per quanto sia un'ovvietà che non meriterebbe attenzione - è logico che io sia destinato a morire! - il saperlo e il viverlo non sono minimamente equiparabili. Mi spiego meglio. So, conosco le sofferenze del parto. Il mio è un sapere esterno, libresco: so quale sconvolgimento possa generare nel corpo della partoriente; ne conosco le pericolosità e i rischi. Documentandomi un po', sarei in grado di elencare gli organi coinvolti e le fluttuazioni ormonali che scuotono il corpo della madre. Saprei moltissime cose, ma sarebbe un sapere freddo, meccanico, quasi metallico. Il mio limite è che non posso viverlo: posso vivere il parto come padre, partecipare della gioia della nascita, ma non potrei mai sperimentare sulla mia pelle la sensazione di una vita che cresce e che viene al mondo. Quello resterà un segreto, il segreto primordiale tra madre e figlio. Ma facciamola più semplice: siamo tutti spettatori di uno film al cinema, di uno spettacolo a teatro o lettori di questo articolo. Ognuno di noi sarà al cinema a teatro o di fronte al cellulare o al pc; ognuno di noi avrà la propria esperienza, la propria prospettiva e la propria percezione. Che non sarà la mia.
Si capisce meglio allora quanto sconvolgente possa essere il comprendere di dover morire. Si muore, e noi siamo abituati a questa impersonalità del morire. Xavier De Maistre stesso fa affermare al protagonista del suo viaggio notturno che la morte altrui, in fondo, è ben la norma. Se proprio devo personalizzare la morte, la personalizzo nella figura del moribondo altro: non sono io a morire, ma è l'altro che muore, ogni giorno. Non è sconvolgente dopo tutto: l'altro si rinserra nella sua alterità, è un'altra monade, una sfera che solo contingentemente è venuta a toccarmi o sfiorarmi. La morte dell'altro non è sconvolgente perché rende manifesto quel si senza altri, prima degli altri. Se altri ci sono è perché emergono dal si impersonale. Però io stesso sono un'emersione da quel sì! Io stesso sono un altro che si muore - per così dire - agli occhi dell'altro. E tutto questo è sconvolgente perché io mi scopro alterità. Alterità tra alterità. Né più né meno che un'altra alterità per coloro che sono la mia alterità.
Siamo così a riunire i fili: non vivrò mai l'esperienza che tu stai vivendo. E tu non vivrai mai la mia. Io e te moriremo, entrambi. Non c'è via di fuga. Dopotutto, si muore, no? Ma è proprio a partire da questo rumore di fondo che mi scopro - che ci scopriamo - reciproca alterità. È solo nel lasciar emergere la molteplicità dell'alterità dallo sfondo impersonale che si potrà sviluppare un pensiero della reciprocità e vivere eticamente. Si muore, è vero: ma la morte è sempre la mia o la tua. Oracolo della rivelazione? Custodire quel mio, tuo, suo… senza ridurlo ad un sapere astratto o al si passivante.