La filosofia e le sue voci - 20 aprile 2024, 09:00

Perché raccontare?

Nuovo appuntamento con le riflessioni di Simone Vaccaro, per la rubrica "La filosofia e le sue voci"

Immagine elaborata da Arena Philosophika

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Quando si riferisce ciò che ci ha raccontato qualcuno, l'essenziale è ricreare il tono. Azzeccato quello la storia diventa vera. Forse inesatta per molti aspetti, eppure vera. Al punto che le parti di fantasia la rendono più credibile

Murakami, Il folclore dei nostri tempi, in I salici ciechi e la donna addormentata

Per chi è narratore di professione risulta facile captare quei segnali radio che provengono dal nostro mondo, per poi poterli fissare su carta. Ci vuole una sensibilità non comune e una buona dose di accondiscendenza per raccontare: essere disposti in risposta ad uno stimolo, ad un input, ad una richiesta. C'è qualcosa - o qualcuno - là fuori, che avanza una protesta, che solleva una mano, che attira l'attenzione. E che richiede comprensione. Chiede che qualcuno le rivolga la parola, che le dia parola. Ogni scrittore lo sa, così come ogni artista: chi guarda chi? Noi guardiamo davvero la cosa o, in primissima battuta è la cosa a guardare noi (e noi ce ne accorgiamo. Avete in mente la sgradevole sensazione di sentirsi osservati mentre non si riesce a localizzare da dove provenga quello sguardo? Ecco, una cosa simile)? Ovvio, se un amico ci racconta una storia, magari sgangherandone le connessioni logico-temporali sull'onda emotiva, l'esigenza di raccontare ordinatamente viene a giustificarsi da sé, si fa più diretta. Ma, come ci ricorda Murakami, è l'atmosfera quello che conta. Posso anche raccontare gli eventi con il beneficio dell'inventario, liberamente ispirato da quanto ricevuto dall'amico, ma la veridicità di una storia risiede nel tono che le assegno. 

E cosa sarebbe questo tono, cui scrupolosamente attenersi? Poniamoci un'altra domanda, per avere un quadro più completo: perché raccontare? Come è noto, convenzionalmente il racconto - mythos - è stato contrapposto alla filosofia che, in quanto agire razionale, purificato dalle passioni umane, permette un'investigazione accurata della verità. Il mythos costitutivamente non può cogliere la verità. Mostra e insegna molte cose, ma nulla può pretendere al cospetto della verità, oggetto privilegiato della filosofia. La differenza tra i due cammini è qualitativa: la filosofia punta lo sguardo alla Verità, la narrazione ad una verosimile, ad una duplicazione di quell'autentico vero appannaggio esclusivo del regno filosofico. Eppure qui si parla senza mezzi termini di verità - e per giunta non riducibile alla fedeltà alla storia di partenza. Qual è allora la verità del racconto, del mythos, verità inaccessibile anche allo sguardo attento della filosofia? Il fatto è che - sembra qui dirci, un po' tra le righe - narrare non è mai considerabile come un meccanico ritorno di ricordi e immagini. Nemmeno lo è delle parole o dei gesti dell'interlocutore.

Il narrare è antecedente alla filosofia. Atto primario, la capacità di raccontare storie ha impresso uno slancio portentoso alla nostra evoluzione. Ma non è su basi bioevolutive che va cercata la primalità letteraria sulla filosofia. Leggere Murakami fa capire bene il perché la narrazione abbia preceduto la filosofia e, come, di rimando, la filosofia abbia dato e dia tutt'ora un contributo essenziale alla sfera letteraria. Ma allora perché raccontiamo? Perché è la nostra risposta ad un senso in formazione. È il riconoscimento di un senso che si sta dando a noi, che si sta sforzando di amalgamarsi e di direzionarsi. Senso impotente che richiede la nostra viva corrispondenza. Compito del narratore è mediare tra la concatenazione logica degli eventi: la fantasia diviene supporto alla logica (se mancano dei "pezzi" sopperiamo alla loro mancanza inventandoceli), e il senso, per altro già presente nell'amalgama informe, si squadernerà in tutta la sua bellezza. E che cosa vi è di più filosofico che l'operare come mediazione, non essendo la filosofia altro che mediazione? 

Simone Vaccaro

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