Storie di Orgoglio Astigiano - 10 maggio 2025, 12:10

Storie di Orgoglio Astigiano. Emanuele Boffa, fotografo: "Ho mandato all'aria un indeterminato per essere davvero felice. Ora collaboro con Vogue"

Adottato a sei mesi da una famiglia astigiana, ai giovani dice: "Siate un po' come il tenente Colombo con la migliore versione di voi stessi. L'insicurezza? Non è debolezza, è ciò che ci insegna a pensare"

Emanuele

Emanuele

Per accompagnarti nella lettura di questa intervista ti consiglio la canzone Bitter sweet symphony, The Verve, contenuta nella playlist "Orgoglio Astigiano" su Spotify

Conosco Emanuele Boffa, 43 anni, da diverso tempo. Diciamo che lui mi ha vista crescere, ma io pure! L'ho visto crescere in un percorso di vita che, oggi, diventata grande, non potevo non raccontare. 

Adesso Emanuele è un fotografo bravissimo. Di quelli in grado di catturare emozioni, per poi rilasciarle a chi guarda. Un po' come quando i bambini fanno a gara a catturare farfalle. E poi le liberano, tra dolci sorrisi e sguardi morbidi. 

Emanuele, che rapporto hai con Asti?

Sono nato a Torino, ma vivo ad Asti, una città in cui la vita mi ha fatto capitare. Stavo in un orfanotrofio di suore a Torino e poi, quando avevo sei mesi, sono stato adottato da una famiglia astigiana. 

Cosa sai del tuo passato?

Non ho mai voluto sapere nulla di più del mio passato, per quanto ne avessi la possibilità. È stata una scelta. La mia mamma adottiva non c’è più, ma mi ha sempre chiesto se volessi sapere del mio passato. Ho sempre rifiutato. E questo mi ha un po' caratterizzato per come sono: anche se molto piccolo, l'adozione mi ha segnato, sia positivamente che negativamente. Ho passato un periodo abbastanza lungo della mia vita in cui non riuscivo ad affezionarmi alle persone, ero distaccato. Forse era legato alla sensazione di abbandono. So di essere stato adottato perché papà e mamma non potevano avere figli. Non sapere da dove arrivi ti cambia, anche dal punto di vista dell’autostima. L'insicurezza ha sempre fatto parte di me. La differenza la fai nel momento in cui impari a conviverci e a farla diventare punto di forza.

Come arriva la fotografia nella tua vita? 

Arriva quando avevo una trentina d’anni. E arriva per caso. Avevo partecipato a un concorso fotografico senza avere alcun tipo di attrezzatura. Facevo con il telefono. Beh, vinsi quel concorso e il premio fu la mia prima Reflex. Quello fu uno stimolo per andare avanti. Da quel momento un’azienda di tessuti mi aveva chiamato per fare delle foto per il suo e-commerce. Poi è uscito il portale "PhotoVogue", di Vogue, ma che per un anno e mezzo non ha accettato i miei lavori. Fino a che... 

È poi arrivato il sì di Vogue?

Esatto, circa otto anni fa è arrivato il sì dalla redazione di PhotoVogue. In quel momento ho capito che potevo comunicare con quel linguaggio, per quanto non mi sentissi all’altezza. Poi ho iniziato a guardare il lavoro degli altri, a prendere spunto. E a viaggiare. 

Quanto è importante il viaggio per chi, come te, vuole trasmettere emozioni?

È fondamentale per sentire l'anima delle persone. Ho viaggiato in Marocco, in Messico ad esempio, per tornare colmo di emozioni più che per studiare. Per esplorare cose che nella vita reale non si possono nemmeno vedere. Pensa che in Madagascar sono finito a fare foto in un bar di scommesse clandestine, dove poi c'è stato persino un combattimento. Per cogliere alcune declinazioni dell'essere umano devi anche essere disposto a rischiare. Almeno un minimo, senza inibizione. 

Quali sono le tue principali collaborazioni?

Dopo PhotoVogue la fotografia ha iniziato ad assorbirmi le giornate. Ho lavorato anche per il pastificio Alfieri, per il ristorante una stella Michelin La Ciau del Tornavento, per Villa Fontana di Agliano Terme e poi per diversi privati, tra cui Fulvio Marino. 

Cosa traina il carretto della fotografia? Tecnica o sentimento?

Sono contro la tecnica. Da sempre. Nella fotografia non conta. Avevo conosciuto Oliviero Toscani a una conferenza. Era un sovversivo, vedeva il mondo da un’altra prospettiva. Ecco, lui diceva che è molto più importante l’emozione della tecnica. Devi sentirti libero di esprimerti, non devi avere paura del giudizio degli altri. L’artista deve essere se stesso, non deve preoccuparsi di piacere agli altri. La dimensione emotiva è fondamentale: bisogna sapere cosa dire, cosa si vuole comunicare. La fotografia è come la scrittura: è una forma di comunicazione. È memoria storica dell’umanità.

Quando ti è scattato il click mentale che ti ha spinto a mollare tutto per la fotografia?

Premetto che questo lavoro non lo cercavo, non pensavo ai soldi né a far diventare la fotografia un mestiere. Mi esercitavo, imparavo, ma senza pensare al guadagno. Piuttosto che stare a casa, mi proponevo per fare esperienza. Per quanto non fosse giusto, oggi funziona così: serve uscire di casa e confrontarsi con il mondo, perché alla fine siamo quello che gli altri ci riconoscono. Comunque, ho sofferto molto la pandemia. Prima del Covid avevo investito in diverse attrezzature fotografiche, ma sono poi stato costretto allo stop. Il primo lavoro disponibile era un posto in un'azienda di logistica. E mi ci sono buttato. Ho lavorato quattro anni, ma non era il mio mondo. Mi adattavo per sopravvivere. Una volta capito che non stavo vivendo, ho buttato all'aria il mio tempo indeterminato e mi sono licenziato. Quell'azienda mi dava tutto, ma io arrivavo a casa e stavo male. Era novembre dello scorso anno, 2024. Avevo due figli, ma ho dovuto rischiare. Ora vivo di fotografia. Se vuoi, puoi. 

Che lavori hai fatto prima?

Ho lavorato in un bar, al Relais San Maurizio, al vecchio Cocchi. Lavoravo nella ristorazione, ma in un’altra veste. Ho fatto anche il giardiniere. Diciamo che ci arrivi con lentezza a capire che bisogna impegnarsi; che le cose non arrivano così, che devi lavorare tanto. E, se è il caso, lavorare anche di notte, perché lo fai per te stesso ed è la cosa più bella. Oggi metto a nanna i miei figli e sistemo le foto. Se vuoi arrivare a fare una cosa puoi, ma devi trovare la tua strategia e quella la trovi andando avanti, facendo esperienza. Ora sono molto attivo nel settore del food e nella gestione dei social, tutto attraverso l'obiettivo. La mia è una fotografia pubblicitaria, ho dovuto investire molto sulla strumentazione, ma ne è valsa la pena. 

Cosa consiglieresti ai ragazzi?

Non accontentatevi di mettere un pacco su una rotella se ambite a fare altro. Buttatevi, potete ribaltare il mondo. Studiate, date una svolta alla vostra vita. Io ho fatto fatica ad andare a scuola, a lavorare sotto dipendenza, ma ci sono persone portate. Non condanno nessun tipo di scelta, ma ci sono tante, troppe persone, che si accontentano di ciò che hanno e vorrebbero di più. Investite nella vostra formazione, non diventate schiavi della vostra stessa vita. Siate voi stessi al 100% e non abbiate paura del giudizio! Dovete essere liberi mentalmente per accettarvi per ciò che siete, con i vostri pregi e difetti. Non è facile, è un lavoro lungo, ma raggiunto quel livello, non proverete più ansia. Insomma, siate un po' come il tenente Colombo con la migliore versione di voi stessi. 

Alla fine che importa cos'è la felicità? Quando sei felice lo senti

Emanuele quando parla ha gli occhi che luccicano. Mi dice che è la prima volta che lo intervistano. E poi così, così profondamente. Penso che la sua storia non possa fare altro che stimolare la riflessione. Avere un sogno è bellissimo, sì, ma può capitare che, pur avendocelo, non si abbia con sé la forza per mettersi in cammino verso la sua realizzazione. La strada per i sogni spesso è lastricata di insoddisfazione. Accogliere davvero il cambiamento vuol dire assecondare se stessi e accorgersi che, magari, in quei panni non siamo felici. Che poi, alla fine, cos'è la felicità? Che importa. Quando sei felice lo senti. Quando imbocchi la strada giusta, in fondo, lo sai perfettamente. 

Cosa pensi dell'Astigiano?

Amo queste terre: ho vissuto per tanti anni a Montemagno, immerso tra panorami mozzafiato. Purtroppo, però, siamo persone chiuse. Il vicino di casa fa sempre il lavoro peggiore: finché ragioniamo così non riusciamo a fare sinergia. Nell'Albese si collabora davvero. Da noi non si fa rete. E, in più, abbiamo tante eccellenze che spesso sono restie a farsi conoscere. C’è una timidezza che mi fa sorridere.

C'è una foto a cui sei più legato?

Sì. L'ho scattata durante la pandemia. Abitavo a Montemagno, non si poteva uscire. E avevo queste valli sconfinate dietro casa. C’era una ragazza del paese con i capelli rossi con cui, in quel periodo, abbiamo fatto foto in un campo primaverile. Mi è rimasta impressa per il momento, così solitario, selvaggio. Mi dava l’idea di libertà, di respiro. E poi quando sono andato in Corsica. Ho conosciuto due ragazze straniere e un signore che aveva un lupo cecoslovacco. Abbiamo messo su questa foto surreale, che ricordo come un periodo bello della vita. E poi in Madagascar, per me è stato un viaggio importante. Ho passato tre settimane a fotografare come un matto (ride, ndr). 

Come hai imparato a fotografare? 

Guardando i film. Mi sono sempre un po’ opposto ai corsi e al rigore tecnico di una sola persona che insegna. Da sempre sono appassionato di film di nicchia, uno dei miei registi preferiti è Terrence Malick. Ha una visione del cinema particolare, è un regista, sì, ma in primis un artista, che fa ciò che vuole a modo suo. Ecco, vedendolo ho imparato molto. 

Arte per te è anche musica, giusto?

Sì, suonavo la batteria. Ora mi sono fermato, ma la musica è stata la protagonista indiscussa di una lunga fase della mia vita, soprattutto con l'amico Rudy Calabrese. Oggi penso che la cosa più importante sia proprio quell’insicurezza di cui parlavamo all'inizio: è con lei che crei qualcosa. Quando sei sicuro, non sei creativo. L’arte deve provocare, qualsiasi cosa. E l'insicurezza deve far parte di noi. Tutti la vedono come una debolezza, ma in realtà è ciò che ci rende forti, ciò che ci fa imparare a pensare. 

Emanuele ed io ci alziamo dal tavolino. Nonostante la lunga chiacchierata, non abbiamo permesso al caffè che avevamo davanti di freddarsi troppo. 

Ci dirigiamo verso l'uscita. Poco più in là troviamo Rudy Calabrese. 

Che giri strani che fa la vita, eh?

Elisabetta Testa


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Orgoglio Astigiano è un progetto che vuole portare alla luce storie di vita e di talenti del territorio, che trova il suo spazio nella rubrica settimanale “Storie di Orgoglio Astigiano”, a cura della giornalista Elisabetta Testa.

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