Giovedì 26 giugno, AstiTeatro 47 entra nel cuore dei suoi contenuti più intensi. Due spettacoli, "Fragileresistente" e "Stabat Mater", tracciano un doppio binario che attraversa la crisi contemporanea e quella storica, l’impotenza e la rabbia, il dolore mentale e quello sociale. Due performance diverse per stile e ambientazione, ma profondamente connesse nel loro tentativo di dare voce all’umanità marginale, quella che lotta ogni giorno per restare in piedi.
"Fragileresistente": la tenerezza inquieta di una generazione ferita
Si comincia alle 19.30 al Diavolo Rosso, con la prima regionale di Fragileresistente, scritto, diretto e interpretato da Silvia Pallotti e Tommaso Russi. Lo spettacolo è una produzione Turno di Notte / Smart Soc Coop, in coproduzione con Linguaggicreativi, e ha già fatto parlare di sé nelle selezioni di Strabismi 2023, Demo Inventaria e come finalista a Theatrical Mass.
Fragileresistente è uno specchio in cui tanti — forse troppi — potranno riconoscersi. Parla della fatica di immaginare un futuro, della stanchezza che permea ogni gesto quotidiano, del senso di impotenza che ci tiene fermi, inchiodati alla paura. Ma non è solo un racconto generazionale: è anche un dialogo tra un padre e un figlio, una relazione che si frantuma e si cerca in un mondo che non offre appigli. Un tuffo da uno scoglio diventa la metafora perfetta: un salto nel vuoto che è insieme gesto estremo e speranza fragile. Pallotti e Russi usano un linguaggio diretto, tagliente, emotivo: lo spettatore si ritrova coinvolto in un confronto che fa male, ma che alla fine restituisce la possibilità di agire, di resistere.
"Stabat Mater": l’urlo antico e modernissimo di una madre esclusa
Alle 21.30 al Teatro Alfieri, le luci si abbassano su uno dei testi più duri e struggenti del teatro contemporaneo italiano. Stabat Mater, firmato da Antonio Tarantino, prende vita nella prima regionale grazie all’interpretazione intensa di Fabrizia Sacchi, diretta da Luca Guadagnino e Stella Savino, per Argot Studio / Infinito Teatro.
Siamo nella Torino dei primi anni ‘90, ma potrebbe essere oggi. Maria Croce, madre del sud trapiantata al nord, è una donna sola, una madre respinta, una vittima senza più spazio nel mondo. Parla in napoletano, bestemmia, supplica, si dimena in un monologo viscerale, impastato di dolore, sarcasmo e poesia. Giuvà, il figlio perduto, è la sua ossessione e il suo unico interlocutore in un mondo che l’ha espulsa. Sacchi dà corpo e voce a un personaggio che sembra scaturito dalle viscere, capace di commuovere e disturbare, di invocare pietà e provocare rabbia. Il testo di Tarantino è un capolavoro di teatro civile e poetico, e Guadagnino gli restituisce tutta la sua potenza cruda e sacra.
Due storie che arrivano da direzioni diverse e che si incontrano nel dolore condiviso e nella forza segreta della fragilità.