Il pittore vive nella fascinazione
Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito
Con queste poche e semplici parole, il filosofo francese Merleau-Ponty tratteggia una visione del mondo, apre al mistero della pittura e mostra un modo peculiare di procedere filosofico. Notevole è il riferimento al mondo dell'arte, a quella dimensione estetica che pone come asse della sua indagine la percezione e la contemplazione degli oggetti artistici. Il dominio dell'arte pittorica (come l'arte dello scrittore), però, ha la capacità di gettare luce su di un terreno inesplorato e inesplorabile in sé - per usare un termine caro al nostro filosofo, invisibile. Cosa fa il pittore quando dipinge? E poi, cosa dipinge il pittore dipingendo?
Sembrano domande un po' oziose, emblema di un ricercare pseudo-filosofico che gode nel complicare cose semplici, e forse è così. Ma, se riponiamo la nostra attenzione a quelle domande e interroghiamo la nostra esperienza quotidiana (o quando siamo al cospetto di un'opera d'arte), allora la loro ovvietà non è così scontata e la risposta non è certa come lo è il fatto che il ghiaccio al sole estivo si scioglie. Pensiamo a Van Gogh, per esempio; quando dipinse i girasoli, dipinse solo girasoli? Ovvero, dipinse solamente la rappresentazione dei girasoli che aveva di fronte a sé? Già quest'ultimo quesito ci permette di fare un passo avanti. Solitamente, associamo l'arte alla sua capacità rappresentativa: maggiore è l'adeguazione tra ciò che viene raffigurato e la realtà presa a modello, maggiore è il senso di artisticità che essa incarna. Certo, l'arte del Novecento si è ingegnata per svellere questa aderenza perfetta tra rappresentazione e oggetto rappresentato, ma ne riproponeva in fondo la medesima logica: qualcosa (la rappresentazione) sta al posto di qualcos'altro (il rappresentato). L'Angelus Novus (1920) di Paul Klee né è un chiarissimo esempio. Una specie di creatura gallinacea che si carica di significato escatologico nelle vesti del nuovo angelo della redenzione (soprattutto dopo la fine analisi di Walter Benjamin nel suo Tesi sul concetto di storia). Se è vero che non è più la rappresentazione un rapporto 1:1, è pur sempre da qui viene letta una identificazione possibile, un'associazione metaforica tra l'X del quadro e l'Y che dovrebbe rappresentare. Ed è grazie alle domande di prima che ora siamo in grado di fare ancora un passo indietro, di scendere ad un livello ancora più essenziale.
Seguendo proprio alcune suggestioni di Klee (e prima di lui di Cézanne), Merleau-Ponty coglie nel segno: il pittore non rappresenta nulla. Il pittore non riproduce nemmeno, a rigore. Ma lascia che la visione si faccia opera, che il suo sguardo diventi sguardo della cosa guardata. Il pittore è "vittima" della cosa guardata che lo affascina. Non è il soggetto-pittore a imporre alla cosa la sua fredda rappresentazione, ma è la cosa che si dà al pittore, mostrando così non tanto la cosa vista, ma il modo in cui la cosa gli si dà (secondo la bella analisi del prof. Vanzago). Ecco allora il senso pieno di quelle domande che ci richiedono un rovesciamento di prospettiva: non è l'occhio del pittore a fare l'opera, ma l'opera stessa che si dona all'occhio del pittore che sa coglierla, farne tesoro e, a sua volta, donarcela.