Adoro i bar di paese, posti dove si guarda più alla sostanza che alla forma e non solo nel bere o nel mangiare, dove ti parlano in dialetto anche se più che evidente ti sia incomprensibile, dove ti puoi prendere sosta dall‘io per tuffarti nel noi, dove il politically correct non è mai stato di moda e le differenze tra fasce sociali, siano d’età, sesso, potere d’acquisto o livello culturale, restano fuori dalla porta. Li adoro per l’assenza di qualcuno che pretenda di essere più di quel che è.
Celebro volentieri l’elegia del vecchio bar di paese, luogo di socialità e di profonda umanità. La celebro da praticante, assiduo e impegnato praticante, che lì trova sempre più da ricevere che da dare. Il piccolo commercio è stato quasi relegato nell’album dei ricordi e i luoghi deputati alla socialità nei nostri bellissimi borghi si riducono di anno in anno. Per questo ogni volta che vedo o leggo di chiusure sento l’avvicinarsi di rumore e folla, di impersonale standard, di volgarità del consumo. E allora non smettiamo mai di frequentare il bar del nostro paese, di qualsiasi paese.
Ma volete mettere la personalità del bar di paese, la bella e varia umanità che ci si trova? A seconda degli orari cambiano volti e suoni: dai commenti corali alle solite quattro notizie della prima mattina, fino al battere le tavole nel giocare a carte o all’incrociarsi di chiacchiere pacate tra conosciuti e sconosciuti di fine giornata.
L’etimologia del termine bar pare derivi dalla contrazione della parola inglese barrier, per la sbarra che un tempo esisteva nei Paesi anglofoni per accedere alla zona riservato alla vendita degli alcolici. Sbarre e barriere di tutti i tipi si sono moltiplicate, negli anni, attorno a noi tutti, barriere reali e concettuali che nell’entrare in un bar di paese si annacquano magnificamente, fino a scomparire.
Ognuno di noi sono certo avrà il suo preferito. Io, svegliandomi molto presto, ne ho due: quello del primo caffè a Mombercelli e quello del resto, sotto casa, a Belveglio. Quest’ultimo ha rischiato di scomparire, ripreso da poco da una coppia di quasi giovani, già del mestiere, tornando ad essere luogo di vita. Ecco, sì, la definizione migliore credo si possa proprio legare alla civiltà del saper vivere la vita, del saper comunicare con il prossimo, del saper essere anche soli in mezzo a tutti gli altri, forma nobilmente raffinata di stare al mondo.