Il senso della bellezza occupa un posto più importante nella vita di quello che la teoria estetica abbia mai occupato in filosofia
George Santayana, The Sense of Beauty
Ho trovato questa notevole citazione nel volumetto curato dal prof. Pietro Montani per la collana Le parole della filosofia pubblicata settimanalmente con il Corriere della Sera. Libretto interessante perché oltre a scandire un percorso storico nell'evoluzione del concetto di bellezza, ne sottolinea l'inesausto movimento sotterraneo che connota l'intera riflessione filosofica sull'argomento: il fatto che il bello, l'oggetto bello, la cosa bella, si configuri come un ponte tra il sensibile e il soprasensibile, tra un particolare individuale e individuato - l'x bello - e un universale comune che collega i singoli particolari individuali - i vari x, y, z definiti belli. Come si può notare, la domanda sul bello ci trascina direttamente all'interno di un terreno che ritenere esclusivamente legato al giardino del pensiero estetico e alle speculazioni prodotte dalla cosiddetta estetica ne minerebbe dalla fondamenta la sua perenne attualità.
Il bello è un concetto storico: non è bello ciò che è bello non perché è bello ciò che piace, ma perché è bello ciò che è riconosciuto bello, ciò che, nella sua pubblicità, cioè nella sua dimensione pubblica, è riconosciuto come portatore di fattori che ne segnalano un surplus rispetto a ciò che bello non è ritenuto. Beninteso però: non si sta qui affermando che il bello è storicamente prospettivistico, solcato fin dal principio dall'instabilità della sua disseminazione. Qui, seguendo le suggestioni presentate dal professore, si vuole rimarcare quella stabilità che permette la continuità nella discontinuità della sua storicità. Il bello può anche cambiare nelle sue forme, ma la bellezza, nella sua natura formale, non muta. Certo, una certa impostazione platonica è inevitabilmente sottointesa: la bellezza è l'Idea di bello e non il bello che si presenta alla nostra percezione sensibile. Però, ammettendo pure che la bellezza sia concettuale, come poterla pensare senza prima passare per il sensibile? Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, secondo la logica aristotelica di Tommaso d'Aquino. Niente si può trovare nell'intelletto che non sia passato prima attraverso i sensi: ancora una volta, una buona filosofia non può mediare tra l'approccio trascendente platonico e quello immanente aristotelico. La questione del bello fa proprio questo.
E questo perché la bellezza non può essere racchiusa in una sua teorizzazione. Se è teoria, ovvero contemplazione, non è la contemplazione distaccata di un passare lateralmente. È più consimile alla contemplazione teatrale che ha nella performance la sua vita e la morte (come mi disse una volta il mio amico attore Adriano Di Carlo: il teatro è tutto, tanto la vita quanto la morte. La potenzia in ogni spettacolo ma in ogni spettacolo muore perché non è mai la medesima performance. Il teatro è il miracolo della vita-morte). La contemplazione della bellezza è sempre partecipativa e affettiva. Potremmo dire corporea. Non a caso Montani si sofferma proprio su due caratteristiche platoniche del bello, presenti nel suo dialogo Fedro: è la cosa più appariscente (ekphanestaton, ciò che si staglia dalla messe di cose giustapposte) e ciò che ha il potere massimo di trainarci (erasmiotaton). Ma qui non si tratta più del solo corpo perché è in gioco un'estasi complessiva che riunisce mente e corpo, contemplazione e partecipazione, estasi e ampliamento delle proprie forze. Vita e morte.
E questa è la potenza massima della bellezza: gettarci direttamente all'interno di un paradosso di inestimabile valore.