È relativamente facile fare sì che un computer mostri una performance matura in un test di intelligenza o nel gioco degli scacchi, mentre è difficile, o impossibile, dotarli delle abilità di un bambino di un anno quando si tratta di percezione e mobilità
Hans Moravec, Mind children: the future of robot and human intelligence (traduzione mia)
Matthew Sandler e Natasha Regan nel loro Game Changer (2019) hanno riportato fedelmente e con grande accuratezza alcune delle mosse più impressionanti che l'Intelligenza Artificiale - sviluppata da DeepMind - AlphaZero ha messo in campo nelle sue sfide contro Stockfish, il computer campione in carica nel gioco degli scacchi. Gli autori, in poche parole, hanno analizzato il comportamento dell'AI e evidenziato una serie di caratteristiche in modo tale da poterne desumere un particolare tipo di azione tale da tratteggiare uno stile di gioco. Ora, tutto ciò non sarebbe nulla di sorprendente se il soggetto non fosse una intelligenza artificiale strutturata come incrocio di reti neurali, ovvero dei sottoinsiemi del machine learning, algoritmi di analisi dati che permette, per via probabilistica, di pronunciare modelli predittivi.
Il nome stesso - reti neurali - richiama alla mente un diretto confronto con le reti neuronali di natura biologica. Può una macchina raggiungere un livello di sofisticazione tale da imitare il cervello umano? Come i due autori correttamente segnalano, alle fine degli anni '80 tale obiettivo sembrava non solo essere utopia, ma anche un fine irraggiungibile perché destinato a sprofondare tra le maglie di un irrisolvibile paradosso: il paradosso di Moravec, citato in testa a questo articolo. In parole semplici, al computer è possibile insegnare una serie di operazioni cognitivamente complesse e computazionalmente articolate (come la processione di migliaia e migliaia di informazioni nel minor tempo possibile), mentre avrebbe enorme difficoltà - per non dire manifesta incapacità - a sviluppare abilità piuttosto semplici per un organismo biologico come il percepire o il muoversi: processi che richiedono una elevata coordinazione, questo è vero, ma che vengono incorporati e che non richiedono successivi sforzi cognitivi per essere messi in atto (una volta imparato a camminare, se non sopraggiungono malattie ovviamente, difficilmente se ne dimenticheranno le dinamiche). Al netto di queste considerazioni, lo scarto che si viene a creare sembra abissale. Ma vale il medesimo discorso con le reti neurali?
Quando AlphaZero affrontò Stockfish, un computer che aveva nel suo database migliaia di combinazioni possibili, la vittoria schiacciante del primo lasciò tutti sgomenti. Cosa aveva in più AlphaZero? Che aveva meno, molto di meno. L'AI sviluppata da DeepMind non era stata farcita con tutte le nozioni possibili e immaginabili del gioco degli scacchi. Insomma, non era l'onnisciente giocatore con le spalle al futuro (sa tutto di ieri e niente di domani); ma, più similmente agli uomini, ignorava tanto il passato quanto il futuro, preferendo adattarsi plasticamente alle circostanze che via via gli si sarebbero presentate da lì in avanti. Potenziando così l'Intelligenza Artificiale, lo iato con la sua controparte biologica si fa sempre più labile mano a mano che il progresso tecnologico integra porzioni di ciò che un tempo si riteneva essere il marchio di fabbrica della superiorità umana.
Chi allora può dirsi sbiadita imitazione? L'intelligenza biologica, di fronte a risultati effettivi e così vantaggiosi e a metodi di addestramento di queste intelligenze artificiali attraverso continua esperienza, è destinata a lasciare il passo ai nuovi ritrovati tecnologici? Oppure saprà mantenere la sua dissimmetria e, in un certo qual senso, la sua superiorità? Capire meglio la macchina per comprendere più in profondità l'uomo: sembra questo l'auspicio che possiamo trarre dalla storia di AlphaZero, il miglior giocatore di scacchi al mondo.