La struttura di uno spazio infinito, costante e omogeneo, in breve puramente matematico, è addirittura antinomica rispetto a quello dello spazio psicofisiologico
Erwin Panofsky, La prospettiva come "forma simbolica"
C'è di mezzo un'invenzione. Una delle più ragguardevoli della nostra storia: l'infinito. È questo che lo storico dell'arte Panofsky, nutrito di sapere filosofico, ha saputo intravedere nella resa artistica della prospettiva. Lungi dall'essere analizzata come banale mezzo rappresentativo, la prospettiva assume, sotto la sua lente di ingrandimento, dimensione privilegiata per una complessiva valutazione della concezione spaziale a tutto tondo. Parlare di prospettiva significa parlare di spazio, di strutturazione dello spazio. Richiede l'enucleazione di un pensiero formale che sia in grado di sistematizzare lo spazio, di renderlo omogeneo, di individuare in lui un oggetto di indagine e esplorazione. Non più solo vivere lo spazio, psicofisiologicamente inteso, ma aprirlo alla concettualizzazione e vedere in ciò che si è così istituito il simbolo di un mutato orientamento del pensiero.
La prospettiva, vera finestra che apre la superficie piana del quadro, ha conosciuto alterne vicende. Ma è solo a partire dal Rinascimento che si può constatare una certa organizzazione prospettica. Ma quale prospettiva è quella si fa formulando tra XV e XVI secolo? Quale spazio lascia squadernarsi alla vista del contemplatore della tela? Una prospettiva esatta, precisa e accurata. Una prospettiva che trova nel punto di fuga il telaio della costruzione dello spazio. Prospettiva artificialis proprio per questa motivazione: fatta ad arte, con sapere tecnico e matematizzante. Ma è proprio la matematizzazione - il fatto che lo spazio prima di essere riempito vada calcolato - ad estendere il campo all'infinito. L'infinito è un concetto moderno, nato dalla messa in opera dei calcoli sullo spazio stesso. L'omogeneità che si viene così a configurare rende necessaria la distensione della tela. L'infinito è nella tela, la prolunga oltre i suoi limiti fisici: una scena in primo piano che prolunga un provenire precluso all'intendimento umano.
Motivazione per la quale la prospettiva non ha potuto che essere arte sacra. Certamente le condizioni storico-sociali hanno contribuito alla tipologia dei soggetti rappresentati rendendo la scelta quasi obbligata; ma, argomenta con grande acume Panofsky, alla prospettiva è connaturata l'arte che fa del divino il suo contenuto. E questo perché, per quanto profondamente umanizzato, lo spazio così raffigurato diviene il palcoscenico per mille e mila teofanie: è dall'infinito che ci parla il finito; è dal fondo irraggiungibile che si rivela la scena cui assistiamo contemplanti. La prospettiva diviene così quella "forma simbolica" che riunisce - senza eliminazione del contrasto - l'infinito divino che viene a manifestarsi oramai all'interno di uno spazio antropologico.