Cultura e tempo libero | 04 giugno 2025, 07:00

Al tempo delle Brigate Rosse: il partito armato che rapì Vittorio Vallarino Gancia

Parte seconda - Sequestro Gancia: i misteri di un fallimento armato

Al tempo delle Brigate Rosse: il partito armato che rapì Vittorio Vallarino Gancia

Esattamente cinquant’anni fa, si consumava il rapimento che avrebbe cambiato in poco tempo le sorti del partito armato. Fu l'inizio di una rapida radicalizzazione delle Brigate Rosse, pronte a passare totalmente alla lotta armata, sotto la guida di Mario Moretti: si tratta del sequestro Gancia, un evento ancora oggi avvolto nell’ombra, la cui origine risale ad alcuni anni prima del 4 giugno 1975.

“Gentile, bella e disponibile”: dalla Spiotta al carcere di Casale Monferrato

1972. Una donna in convalescenza, Marta Caruso, acquista una cascina ad Arzello, la Spiotta, dove svolge piccoli lavori agricoli e si riposa. “Gentile, bella e disponibile”, così era stata descritta dai vicini.

L’anno precedente, Renato Curcio, MargheritaMaraCagol e Alberto Franceschini si danno alla clandestinità: inizia la propaganda armata delle Brigate Rosse.

Sono anni di grande cambiamento per il Paese: “Prima del sequestro di Mario Sossi le Br preoccupavano poco o nulla e ancora dopo c’era scarso interesse, al punto che un giornalista di ottimo livello quando fu arrestato Curcio mi chiese… chi fosse – ci aveva raccontato Gian Carlo Caselli, giudice istruttore di inchieste sul partito armato - Le Brigate Rosse erano purtroppo efficienti sul piano criminale, ma anche politicamente subalterne. Nel senso che le loro svolte o impennate criminali coincidono con i momenti di maggiore tensione politico-sociale del Paese. Così, rapiscono Sossi nel bel mezzo della campagna referendaria sul divorzio”.

 È il 18 aprile 1974, Genova, il giudice Mario Sossi viene sequestrato per 35 giorni da un gruppo del partito armato: un’evoluzione da parte delle Brigate Rosse che, ora, sono decise a colpire al cuore dello Stato e quella categoria delle istituzioni che credevano più fragile: la magistratura.

Tuttavia, l’8 settembre, Curcio e Franceschini vengono arrestati e portati al carcere di Casale Monferrato. A capo della colonna torinese resta soltanto Mara, più che mai determinata a liberare il marito e continuare la lotta rivoluzionaria.

"Cari genitori non pensate per favore che io sia incosciente. Grazie a voi sono cresciuta istruita, intelligente e soprattutto forte. E questa forza in questo momento me la sento tutta. È giusto e sacrosanto quello che sto facendo, la storia mi dà ragione come l'ha data alla Resistenza del '45. Ma voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi, non ce ne sono altri", scrive ai genitori, ormai in clandestinità.

 Il 18 febbraio 1975, un gruppo di brigatisti si presenta al carcere di Casale Monferrato. Mara, con la scusa di consegnare un pacco a un detenuto, entra nella struttura e, una volta dentro, le BR bloccano il personale e tagliano le comunicazioni: Curcio viene liberato.

Un’evasione che destò scandalo per la poca sicurezza all’interno del carcere e per averne scelto proprio uno così piccolo per Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate Rosse.

Da quel momento, il partito armato si radicalizza ulteriormente e aumentano gli scontri con le forze dell’ordine.

Vittorio Vallarino Gancia sequestrato a Canelli

Un miliardo di lire è quanto Mara Cagol spera di ottenere. Il bersaglio è Vittorio Vallarino Gancia, importante industriale, proprietario della nota azienda di spumanti a Canelli.

 Il territorio, ben conosciuto dai brigatisti, diventa così protagonista del primo sequestro a scopo estorsivo delle BR; non un’azione politica, ma un tentativo di finanziare la lotta armata, un’operazione pianificata, pulita: non devono esserci morti. 

 È pomeriggio, il calendario segna mercoledì 4 giugno 1975. Gancia esce di casa per recarsi in azienda, quando, lungo la strada tra Cassinasco e Canelli, un furgone e una Fiat 124 bloccano la strada. Alcuni uomini, vestiti da operai, lo costringono a rallentare. Poi un tamponamento: in pochi secondi Gancia viene prelevato dalla propria auto: inizia il sequestro. Poco dopo, i rapitori abbandonano le auto a Calamandrana.

 Per alcune ore nessuno sospetta che si tratti di terrorismo, quando un banale incidente è destinato a cambiare ogni cosa. Un giovane, Massimo Maraschi, è alla guida della propria 124, quando tampona una 500. Secondo le ricostruzioni, Maraschi si mostra gentile e disponibile a pagare i danni, propone 70 mila lire, una cifra troppo alta, sospetta per il conducente della 500, che avvisa i Carabinieri.

 Quando i le forze dell'ordine intercettano la 124, Maraschi si dichiara “prigioniero politico”, due parole che cambiano tutto: è terrorismo. Ricostruire oggi l'interrogatorio è complesso, troppe le contraddizioni riscontrate tra i testimoni. Quel che trapela, però, è la zona in cui dovrebbe trovarsi il sequestrato.

Il giorno dopo, senza attendere i rinforzi del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, impegnati a Torino per le celebrazioni della Festa dell’Arma, una pattuglia dei Carabinieri di Acqui Terme si dirige verso la cascina Spiotta d’Arzello. A bordo ci sono il tenente Umberto Rocca, il maresciallo Rosario Cattafi, gli appuntati Giovanni d’Alfonso e Pietro Barberis.

I Carabinieri notano che, sulla strada che porta al casolare, ci sono due automobili parcheggiate, una Fiat 127 e una 128; così bussano alla porta, chiedendo alle persone di uscire. Dall’interno, un uomo e una donna si rendono collaborativi, ma, all’improvviso, aprono il fuoco: proiettili e bombe a mano raggiungono l’appuntato d’Alfonso, il tenente Rocca e il maresciallo Cattafi.

Non ci sono più dubbi: dentro ci sono i brigatisti, un uomo e una donna che, ora, tentano la fuga.

La strada è bloccata dall’auto dei Carabinieri, lì c’è Pietro Barberis: la prima auto finisce contro un albero, la seconda la tampona. Sembra il momento della resa, ma il brigatista lancia una bomba a mano. Barberis reagisce, si sposta, colpisce la donna. Poi si lancia all’inseguimento dell’uomo, fuggito nella boscaglia e mai più trovato.

Quando arrivano i rinforzi, trovano Gancia rinchiuso, ancora legato, ma incolume. Il bilancio, però, è drammatico: il tenente Rocca perde un braccio e l’occhio sinistro, mentre l’appuntato Giovanni d’Alfonso, ferito alla testa e a un polmone, muore dopo sei giorni di agonia in ospedale.

Si scoprirà il 6 giugno l’identità della brigatista: è Margherita Cagol, identificata dalle sorelle. La prima a morire tra le BR.

Vendetta, silenzi e rimozioni

Un anno un anno più tardi, l’8 giugno 1976, le Brigate Rosse uccidono il magistrato Francesco Coco e la sua scorta, un’azione che diventa quasi una vendetta per ciò che era avvenuto alla Spiotta e che apre l’ultima e più violenta fase degli “Anni di piombo”.

 Nel frattempo, la morte di Giovanni d’Alfonso cade drammaticamente nell’ombra, mentre Mara Cagol diventa una martire della rivoluzione: “La sua vita e la sua morte sono un esempio che nessun combattente per la libertà potrà più dimenticare”, riporta un comunicato del partito armato.

Una donna, descritta come sanguinaria, ma che secondo Gancia gli avrebbe salvato la vita, “Lascialo che non c’entra niente”, avrebbe risposto al compagno presente alla Spiotta. “Mi ha salvato la vita e un minuto dopo è morta - aveva dichiarato Gancia - Questa cosa mi sta sul cuore”.

Ma se fin qui le dinamiche sembrano ancora chiare, così non è: documenti, prove mancanti, testimoni in contraddizione, cinquant’anni di silenzi, omissioni, paure e un processo per arrivare alla verità: chi ha ucciso l’appuntato Giovanni d’Alfonso?

La riapertura del caso: 2022 - 2025

Durante i primi processi e le ricerche del brigatista ignoto, l’unico ad essere stato condannato è Massimo Maraschi, ma dell’identità del fuggitivo nessuno sa nulla.

Tutto riprende nel 2022, quando la Procura di Torino riapre un fascicolo, dopo che il figlio di Giovanni D’Alfonso, Bruno, presenta un esposto: ritorna la possibilità che il fuggitivo sia Lauro Azzolini, ex brigatista e dirigente della colonna di Milano che, nel 1987, era stato dichiarato estraneo ai fatti e la cui sentenza finì distrutta nell’alluvione del 1994.

Nel 2023, però, intercettazioni smentiscono la sua versione: Azzolini si lascia sfuggire alcune frasi che lo collegherebbero al sequestro.

Il 16 ottobre 2024 si tiene l’udienza preliminare per il rinvio a giudizio di quattro ex brigatisti: Pierluigi Zuffada, Renato Curcio, Lauro Azzolini e Mario Moretti.

Il processo ad Azzolini, Curcio e Moretti inizia il 25 febbraio 2025 alla Corte d’Assise di Alessandria, con ulteriori prove che lo coinvolgerebbero, tra cui un memoriale con numerose tracce delle sue impronte digitali e, soprattutto, la dichiarazione spontanea dell’imputato che, l’11 marzo, ha confermato la sua presenza sul luogo nel 1975.

Le indagini di Bruno d’Alfonso

Bruno D’Alfonso, figlio dell’appuntato Giovanni ed ex Carabiniere, ricostruisce pazientemente gli eventi. Riscopre un documento sequestrato nel gennaio 1976 nel covo di via Maderno a Milano, trasmesso dalla magistratura di Milano a quella di Alessandria, ma mai approfondito.

Il documento dimenticato e le indagini personali

“Questo documento appare per la prima volta il 18 gennaio del ’76, perché sequestrato all'interno del covo dei brigatisti di via Maderno a Milano e in cui furono arrestati Renato Curcio e Nadia Mantovani – ci racconta Bruno D’Alfonso, ricostruendo la vicenda che ha contribuito a riaprire il caso - Questo documento è stato inviato dalla magistratura di Milano a quella di Alessandria. Si è sempre saputo di questo documento, però non avevano indagato più di tanto”.

 Nel 2009, Bruno torna in Piemonte con un collega. Rintraccia contadini, Carabinieri, testimoni. Scopre atti mancanti, indagini incomplete, documenti mai validati: “Ero con un collega perché lui aveva fatto servizio a Canelli e quindi aveva conosciuto diversi personaggi che avevano gravitato intorno a questa vicenda e, di conseguenza, io ho cominciato a contattarli tutti: carabinieri che erano intervenuti appena dopo quel conflitto a fuoco, i contadini che abitavano lì vicino. Dopodiché io avevo la sentenza in cui avevano attribuito tutti i reati di quel conflitto a fuoco all'unico brigatista arrestato, Massimo Maraschi, che però era stato arrestato il giorno precedente”.

 Qui Bruno comincia a notare che molti atti di polizia giudiziaria non erano presenti, documenti non validati o mancanti tra quelli del nucleo speciale antiterrorismo: “Pensiamo soltanto alle impronte digitali che sono state rilevate dalla questura di Torino, per esempio. Cercavo tra un ufficio e l'altro di recuperare il più possibile di questi atti”.

 Attraverso queste ricerche, aiutato da due giornalisti, Bruno D’Alfonso scopre che chi aveva svolto l’indagine, dichiarò ai giornalisti che c'era un documento e che sul cadavere della Cagol era stato fatto il “guanto di paraffina”, escludendo che la donna avesse utilizzato armi comuni da sparo; quindi, in quella circostanza avrebbe soltanto tirato le bombe. Ma non furono quelle a uccidere Giovanni D’Alfonso.

“Per esclusione, quindi, doveva essere il brigatista fuggito – continua il figlio dell’appuntato - Un'altra cosa importante che non avevano mai scoperto, era un infiltrato, la fonte “Frillo”, cioè Leonio Bozzato, che aveva avuto a che fare con il covo di via Maderno. Insomma, c'erano tanti collegamenti con la cascina Spiotta e quindi era un personaggio che sapeva molto”.

Infine, il documento con le impronte di Lauro Azzolini, un memoriale a cui, però, le impronte non furono mai rilevate, sebbene le tecniche lo permettessero già.

Emblematica, per lui, è l’immagine del padre lasciato per terra mentre gli altri feriti venivano soccorsi e Gancia veniva liberato: “Mio padre è morto sei giorni dopo, ma nessuno si è curato subito di lui”.

Le ombre sui lunghi silenzi: Gancia e Dalla Chiesa

Durante il processo emergono altri punti oscuri - “Nessuno dice nulla, nessuno fa nulla”. Le dichiarazioni del tenente Rocca, secondo Bruno, mutano nel tempo e l’incontro tra Gancia e Dalla Chiesa getta ulteriori ombre: Io rispetto tantissimo la figura di Dalla Chiesa e tutta l’Arma dei Carabinieri, in cui sono stato trent’anni. Però mi rendo conto che evidentemente c'era un qualcosa che era andato storto, qualcosa che non doveva trapelare; insomma, delle dinamiche che potevano essere scomode per qualcuno, alla fine hanno fatto in modo che il fuggitivo non sia mai stato più perseguito”.

Ma soprattutto ciò che lo stesso Gancia gli raccontò riguardo al suo incontro con Dalla Chiesa, quando, portato al carcere di Cuneo per riconoscere la voce dei brigatisti arrestati. Lì avrebbe riconosciuto qualche voce, ma il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa gli avrebbe detto: “Se lei vuole campare ancora qualche anno, stia buono dov’è”.

Risposte che spiegano la lettura che Bruno D’Alfonso ha dato nelle ultime udienze, leggendo questi silenzi come “un patto di non belligeranza tra lo Stato e le Brigate Rosse. Negli anni io e la mia famiglia siamo cresciuti nell’indifferenza dello Stato”. Una sorta di intesa implicita tra le parti, come se ci fosse stata una parità, “come per dire e è morto uno dei nostri e uno dei vostri”.

A rafforzare queste sensazioni si sono recentemente aggiunte le testimonianze di due ex Carabinieri del nucleo speciale antiterrorismo, Piero Bosso e Luciano Seno.

Durante l’udienza del 20 maggio, infatti, Bosso ha raccontato degli accertamenti che dovevano svolgere sugli atti di compravendita di cascine e appartamenti in Piemonte, per capire se fossero persone veramente esistenti. Secondo la testimonianza, il 4 giugno 1975 uscì fuori il nome della cascina Spiotta, acquistata due anni prima da una donna residente a Padova, risultata inesistente.

“Ricordo che la competenza era del Comando Gruppo di Alessandria e che la stazione dei Carabinieri di Acqui Terme, dove mi trovavo in quel momento, aveva riconosciuto quei documenti. Alessandria doveva trasmettere i documenti a Dalla Chiesa”, dichiara Bosso.

 Dall’altra parte, il collega Seno riferisce di aver ricevuto una telefonata dalla territoriale relativa a un individuo sospetto, ma il 3 giugno, il giorno prima del conflitto a fuoco.

“La cascina Spiotta l’ho sentita nominare solo il giorno dopo – afferma - Esisteva un’informativa che segnalava la falsità dei documenti utilizzati per l’acquisto della cascina, rendendo sospetta la compravendita, ma questa informativa non era stata trasmessa al nostro reparto. Credo che nel reparto di Alessandria ci fosse qualcuno che non comprese l’importanza dell’informazione”.

 Secondo Bosso, inoltre, Seno gli riferì che ordini da Torino imponevano di bloccare tutto e di tornare sul luogo soltanto dopo la Festa dell’Arma, dove avrebbero ricevuto un encomio. Ma al ritorno i fatti della Spiotta era già successi.

L’eredità di una mezza verità

Oggi, il processo non è ancora terminato. Nuove indagini e responsabilità mai emerse prima danno nuove speranze a Bruno D’Alfonso e alla sua famiglia per poter restituire dignità alla memoria di loro padre, vittima di un conflitto a fuoco, di mancati riconoscimenti da parte dell’Arma, che gli declassò la medaglia da oro ad argento, ma soprattutto di una lunga rimozione da parte della collettività, che fin da subito si focalizzò sulla morte di Margherita Cagol.

“Lì è morta la moglie di Renato Curcio ed è questo il punto focale. Alla fine, questo episodio viene ricordato non per l'omicidio di mio padre, ma per l'omicidio della Cagol, tutta l'attenzione sta lì. I brigatisti vogliono sapere come è stata uccisa. Io ho fatto riaprire il caso per mio padre”.

Francesco Rosso

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Viviamo in un posto bellissimo

Davide Palazzetti

Chi sono in tre righe? Ci si prova.
Partiamo dal personale: marito innamorato e padre fortunato. Tergiversando poi su info tipiche da curriculum, amo il nostro territorio. Lo vivo come nostro anche se vi arrivo da Genova nel 2003. Mi occupo di marketing territoriale e promozione turistica con la piacevole consapevolezza di quanta bellezza ci circondi. Racconto un posto bellissimo, qui e su alcuni miei gruppi Facebook, nella certezza che una delle poche vie di riscatto dell’Astigiano sia riempirlo di turisti.

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