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Attualità | 06 dicembre 2025, 08:59

LA STORIA: "Vi racconto l’inferno del 7 ottobre. Io, sopravvissuta al massacro del Nova Festival, sono qui per educare alla resilienza e all'amore"

Ad Asti la testimonianza di Hadar Sharvit, scampata alla strage di Hamas. I razzi, gli stupri, le ore nascosta con la paura di essere presa in ostaggio. Il perdono? Non per questa generazione

Hadar Sharvit  (Ph J.Dem.A.)

Hadar Sharvit (Ph J.Dem.A.)

Il tatuaggio lungo il braccio, un' esile pianta di agrumi, un cespuglio come ce ne sono tanti in Israele. Ma per tante ore, ore che rappresentano un'esistenza intera, quel cespuglio  ha rappresentato l'esile confine tra la vita e la morte, tra l'ombra della disperazione e la luce di una speranza.  

E' quello che porta con sé  Hadar Sharvit, 29 anni, insegnante israeliana e sopravvissuta al massacro del Nova Music Festival del 7 ottobre 2023, ospite di una serata promossa dal Rotary Club e dall’Associazione Italia Israele. 

L’incontro è stato aperto da due brevi filmati: il primo con le immagini – attenuate – dell’attacco, riprese dagli stessi terroristi, il secondo con il silenzio del campo oggi, trasformato in un memoriale di fotografie, fiori e bandiere. 

A fare gli onori di casa le realtà promotrici, che hanno voluto portare ad Asti una voce diretta, lontana dalle semplificazioni del dibattito social. Prima di dare la parola a Hadar, dal palco è stato ricordato come una delegazione di avvocati e giuristi italiani fosse stata, poche settimane fa, proprio nei luoghi del Nova Festival: un terreno agricolo nel sud di Israele, oggi disseminato di steli, fotografie e oggetti personali, dove il paesaggio naturale convive con la memoria di 378 giovani uccisi. Una premessa necessaria per capire la portata di ciò che la giovane insegnante stava per raccontare.

La notte perfetta che si spezza all’alba

Hadar comincia da lontano, da prima del 7 ottobre. Racconta di quanto amasse i festival psytrance, la musica, il ballo, la natura. Insieme ai suoi amici aveva acquistato i biglietti per il Nova un mese prima: “Sapevamo che sarebbe stato uno degli eventi più belli dell’anno, eravamo eccitatissimi”, ricorda. Sono in quindici, più auto, tende, zaini. Arrivano nella notte, tra mezzanotte e l’una. Il cuore del festival è l’alba: la musica che cresce, i colori dei vestiti, i sorrisi, la gente che si guarda in faccia mentre il sole sale. È quel momento che tutti aspettano, senza immaginare che quell’alba diventerà sinonimo di strage.

Alle 6.19, sul palco dove il dj sta suonando, salgono alcuni organizzatori: la musica deve fermarsi, stanno arrivando razzi da Gaza. In Israele, spiega Hadar, “purtroppo siamo abituati” agli allarmi: si sa che bisogna buttarsi a terra, coprire la testa, cercare un riparo in 7–10 secondi. Ma lì, in mezzo a un campo aperto, non c’è alcun rifugio. Lei e i suoi amici corrono alla zona campeggio, buttano tutto nelle auto e cercano di lasciare l’area. Si ritrovano intrappolati in una coda interminabile: la polizia ha chiuso le strade perché, nel frattempo, non ci sono solo razzi ma anche terroristi infiltrati oltre il confine.

La telefonata al padre: “Questi sono i miei ultimi minuti”

Alle 7.30 Hadar scrive al padre e alle sorelle nel gruppo familiare. Sono loro ad aggiornarla su quello che sta accadendo: sui canali Telegram circolano già i video dei miliziani di Hamas che sfondano le barriere di confine con pick-up, kalashnikov e razzi. Il padre vede le immagini in diretta e le dice che partirà a recuperarla. Lei però capisce che restare bloccati in auto, in colonna, è troppo pericoloso sotto il fuoco dei missili: con l’amico Shel decide di tornare verso l’area del festival, cercando riparo tra i cespugli, vicino al bar e alle famigerate “toilette gialle” diventate poi simbolo dei video di quella mattina.

Poco dopo le 8 iniziano a sentirsi distintamente i colpi delle armi automatiche. Hadar capisce che non è l’esercito israeliano – che non usa quel tipo di armamento – ma i terroristi che avanzano a gruppi. Qualche metro più in là vede un’auto carica di feriti, ragazzi in preda agli attacchi di panico, consapevoli che non si tratta più “solo” di un lancio di razzi, ma di un attacco di terra di dimensioni mai viste. Quando prova a chiamare la polizia e le ambulanze, la risposta è sempre la stessa: non possono intervenire, tutte le forze sono impegnate a fronteggiare l’offensiva. È in quel momento, racconta, che si sente veramente sola.

Cinque ore sotto un albero, circondata dalle urla

Hadar e Shel si separano e si nascondono in due cespugli diversi, poi si ritrovano e si tengono per mano. Lei richiama il padre: lui le chiede dove si trovi, le chiede di mandare la posizione, ma lei non vuole che si avvicini troppo alla zona dei combattimenti. A un certo punto gli dice: “Papà, ti voglio bene, questi sono i miei ultimi momenti”. Dall’altro capo della linea, lui sente gli spari, le esplosioni dei lanciagranate, le urla. Lei sente, oltre ai colpi, anche le grida in arabo, gli slogan di odio contro gli ebrei, le invocazioni religiose urlate mentre si spara sui corpi.

Quando Shel la trascina di nuovo in corsa attraverso il campo, Hadar sente i proiettili fischiarle accanto alle orecchie e vede altri giovani cadere colpiti uno dopo l’altro. Si fermano solo in un campo di cedri: scelgono un albero “che dava energia” e si nascondono lì sotto. Passano cinque ore immobili, con il corpo rigido per non far frusciare le foglie secche, senza bere, senza muoversi. Intorno, un coro continuo di esplosioni, raffiche di mitra, colpi di razzi anticarro, granate. Hadar racconta di aver sentito persone implorare pietà, donne abusate, ordini urlati in arabo. Per non impazzire, dice, ha iniziato a parlarsi dentro la testa, a controllare il respiro, a fare meditazione per tenere a bada il panico: “Sapevo che potevo essere la prossima, mi preparavo anche alla possibilità di morire”.

Più volte sente voci che chiamano in ebraico: “C’è qualcuno qui?”. Ma lei non risponde, teme possa essere una trappola dei terroristi che imitano la lingua per stanare i sopravvissuti. Solo quando scoppia un incendio e, da un lato, continua a percepire il parlare arabo mentre dall’altro sente stabilmente parlare ebraico, decide che è il momento di rischiare e di provare a raggiungere quello che immagina essere un punto di raccolta dell’esercito.

L’abbraccio e il dopo: “La vera prova, essere sopravvissuta”

Strisciando da un cespuglio all’altro, Hadar e Shel raggiungono finalmente una strada. Lì, il trauma dell’udito diventa visivo: auto capovolte e bruciate, fori di proiettili ovunque, corpi straziati, pezzi di persone, l’odore acre della carne e del metallo. Vede anche alcuni terroristi già catturati, bendati e in ginocchio, circondati dai soldati israeliani. Nel frattempo il suo telefono si è scaricato; solo grazie al cellulare di un militare può richiamare il padre, che risponde alla quarta telefonata. Lui è nella zona da ore, ha aiutato i soccorritori a caricare corpi e resti umani, chiedendo a chiunque incontrasse se avesse visto sua figlia.Le dico sempre che non è solo la mia, ma anche la sua storia di miracolo”, riferisce Hadar.

Dopo circa otto ore dall’inizio dell’attacco, la ragazza viene portata alla stazione di polizia di Ofakim, dove finalmente il padre la raggiunge. L’abbraccio è lungo, disperato, quasi incredulo: né l’uno né l’altra pensavano di poter sopravvivere e ritrovarsi. Ma la storia non finisce lì. “La parte più difficile comincia dopo”, spiega Hadar, parlando del peso psicologico di essere sopravvissuti in una famiglia che porta addosso il lutto collettivo del Paese. Lei va a vivere dalle sorelle, per non gravare ulteriormente sulla madre, religiosa e sconvolta, che nel giorno dello Shabbat non era riuscita nemmeno a contattarla. Il padre, invece, non salta un solo giorno: ogni mattina la raggiunge, parla con lei di ciò che è successo, le sta accanto in un percorso comune di elaborazione del trauma.

“Torniamo in classe: l’odio non si vince con altro odio”

Oggi Hadar ha 29 anni ed è tornata al suo lavoro di insegnante. Ha una classe tutta sua nella scuola in cui lavora. Quando racconta il momento in cui ha deciso di rientrare in aula, la voce si fa più ferma: “Una delle mie missioni era tornare a insegnare, perché è il modo migliore per parlare ai ragazzi di resilienza. Se io torno alla mia vita, dimostro loro che si può andare avanti”. Ai suoi studenti, che hanno tra gli 8 e i 13 anni, ripete che “all’odio non si risponde con altro odio, ma con l’amore e l’educazione”.

Per Hadar la chiave per spezzare il ciclo della violenza è questa: non alimentare altro risentimento, né contro Israele né contro qualunque altra comunità. “Bisogna cominciare da noi stessi, chiederci ogni giorno come possiamo guarire interiormente”, spiega. Solo chi sta bene dentro, secondo lei, può diffondere verso l’esterno rispetto e pace. È convinta però che “dall’altra parte”, nei territori governati da Hamas, stia avvenendo l’esatto opposto, con un’educazione sistematica all’odio. Da qui nasce il suo impegno: parlare ai suoi alunni e, quando può, ai coetanei in giro per il mondo.

“A chi canta "dal fiume al mare" dico: mettetevi nei miei panni”

Alla fine dell’incontro astigiano le chiedo cosa direbbe ai ragazzi europei che, nelle piazze, scandiscono slogan come “From the river to the sea” senza forse conoscere fino in fondo la storia e le conseguenze di quelle parole. Hadar non esita: direbbe loro di provare, anche solo per un attimo, a mettersi nei suoi panni e in quelli dei suoi amici del Nova. “Vorrei vedere come reagirebbero se in Europa accadesse quello che è successo a noi” è il suo messaggio. E aggiunge che non è affatto scontato che qualcosa di simile non possa accadere anche qui, alla luce del clima che si respira.

Poi lancia un invito più concreto: venire in Israele. Mostrerebbe loro il “mare” e il “fiume” di cui parlano gli slogan, ma soprattutto li porterebbe al memoriale del Nova Festival, davanti alle fotografie di chi non c’è più, per far vedere “la magia” del suo Paese, fatta di storia, energia, vita quotidiana. 

"Il perdono? Non per questa generazione, ma spero per i miei figli"

Nell'ultima parte del confronto, Hadar affronta il tema più difficile: quello del perdono. Ammette con lucidità e senza giri di parole che, per la sua generazione, perdonare non è possibile. Il peso di ciò che ha visto, sentito e vissuto è troppo grande, troppo recente, troppo radicato nella carne e nella memoria. Ma subito dopo aggiunge una nota di speranza, fragile e tenace al tempo stesso: spera che i suoi figli, un domani, possano tornare a fidarsi. Che possano crescere in un mondo diverso, dove la paura non sia più la compagna quotidiana di ogni giovane israeliano. È una speranza che non cancella il dolore, ma che prova comunque a guardare oltre, verso un futuro in cui l'odio possa essere sostituito dalla possibilità di ricostruire un dialogo. Una speranza che Hadar continua a coltivare ogni giorno, tornando in classe, guardando negli occhi i suoi studenti e insegnando loro che, anche dopo l'inferno, si può scegliere di non cedere alla vendetta.

Alessandro Franco

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