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Cultura e tempo libero | 29 maggio 2025, 08:50

Al tempo delle Brigate Rosse: il partito armato che rapì Vittorio Vallarino Gancia

Parte prima – Anatomia del gruppo terroristico: un dialogo con Gian Carlo Caselli

Al tempo delle Brigate Rosse: il partito armato che rapì Vittorio Vallarino Gancia

 A distanza di decenni, la storia delle Brigate Rosse resta un capitolo controverso e, in parte, irrisolto della storia nazionale. 

L’Italia si trova al tramonto degli anni Sessanta, lasciandosi alle spalle il grande boom economico mondiale: nel cambiamento, le piazze si riempiono di studenti e operai, protagonisti del biennio ’68-’69, una stagione di malcontento diffuso all’interno dell’apparato produttivo industriale e terreno fertile per la nascita di quello che diventerà il più longevo gruppo terroristico di estrema sinistra: le Brigate Rosse.

 Ma è nel giugno del 1975, il giorno 4, che il nostro territorio è tragico protagonista, quando alcuni membri del gruppo giunsero a Canelli con un obiettivo: l'industriale Vittorio Vallarino Gancia. Un sequestro cruento, avvolto in misteri che solo oggi, dopo 50 anni e un nuovo processo, iniziano a dissolversi.

La testimonianza di Gian Carlo Caselli: “L’utopia della rivoluzione”

Per iniziare a comprendere cosa furono le Brigate Rosse, abbiamo chiesto a Gian Carlo Caselli, figura chiave della lotta al terrorismo, che da giudice istruttore ha condotto inchieste sul partito armato, arrivando al fondamentale “Processo di Torino” contro il "nucleo storico". Collaborò in stretto contatto col generale Carlo Alberto dalla Chiesa e, nel 1980, raccolse le prime confessioni dell’ex terrorista Patrizio Peci.

La genesi delle Brigate Rosse e la tensione politico-sociale del Paese

Come venivano percepite socialmente, politicamente e all'interno della magistratura le Brigate Rosse tra il 1970 e il 1975, prima del loro passaggio completo alla lotta armata e della guida di Mario Moretti?

Prima del sequestro di Mario Sossi le Br preoccupavano poco o nulla e ancora dopo c’era scarso interesse, al punto che un giornalista di ottimo livello quando fu arrestato Curcio mi chiese… chi fosse. Le Brigate Rosse erano purtroppo efficienti sul piano criminale, ma anche politicamente subalterne. Nel senso che le loro svolte o impennate criminali coincidono con i momenti di maggiore tensione politico-sociale del Paese. Così, rapiscono Sossi (1974) nel bel mezzo della campagna referendaria sul divorzio… poi passano alle azioni cruente, uccidono a Genova il procuratore generale Coco e la scorta (1976) in concomitanza con le elezioni amministrative che portano a un cambiamento potente, l’ascesa delle Sinistre, la flessione della Dc… infine arrivano all’eccidio di via Fani, al rapimento Moro (1978) proprio quando la vittima si sta recando in Parlamento per varare una novità assoluta, cioè un Governo con la partecipazione del Pci, sia pure nella forma dell’astensionismo. Allora, ecco perché subalterne: perché, al di là dei proclami, della retorica, dei volantini, delle analisi… non c’è un progetto politico che poggi su gambe proprie, a parte l’utopia della rivoluzione. Di qui la necessità di sfruttare i cambiamenti in atto, di inserirsi nel vento altrui, se così vogliamo dire…

Dalla Chiesa e la “cura omeopatica”

La risposta dello Stato arriva con la nomina del generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Torino e l’istituzione dei nuclei speciali antiterrorismo. Un punto di svolta nel contrasto operativo alle BR.

 Cosa comportò l’arrivo del generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Torino per la lotta al terrorismo e quanto cruciale fu l’istituzione dei nuclei speciali?

Con l’istituzione dei nuclei speciali antiterrorismo (quello dei Carabinieri facente capo a dalla Chiesa e quello della Polizia di Stato facente capo a Santillo) alla organizzazione delle Brigate Rosse si cominciò a contrapporre altrettanta organizzazione, una specie di cura omeopatica - voglio dire che si applicò un metodo di lavoro basato su due parametri: specializzazione e centralizzazione - specializzazione vuol dire che chi fa antiterrorismo si deve occupare di questo e soltanto di questo, in modo da approfondire sempre più la conoscenza del fenomeno - Centralizzazione vuol dire che tutti i dati acquisiti devono finire in un unico motore di raccolta, di modo tale che non sfugga nulla, magari un particolare che potrebbe essere prezioso per far decollare un’indagine- Inoltre i nuclei operavano su tutto il territorio dello Stato senza limiti di competenza geografica e questo consentiva loro di avere una visione d’insieme altrimenti impossibile.

Il “Processo di Torino”: lo Stato sotto attacco

Tra il 1977 e il 1978 si svolge a Torino il primo grande processo ai vertici delle BR. Un banco di prova per la democrazia italiana.

 “Processo di Torino”, qui viene rivelata in un comunicato la volontà di “portare l’attacco al cuore dello Stato”; che cosa significò e quali difficoltà riscontrò la Giustizia durante gli anni del processo?

Un mantra delle Brigate Rosse era che la rivoluzione non si processa, la lotta armata non si condanna. Perciò sul processo ai capi storici delle Brigate Rosse che si è celebrato a Torino le BR hanno scaricato un volume di fuoco impressionante per impedirlo - speravano che lo Stato italiano sarebbe stato costretto a gettare quella che loro chiamavano maschera democratica, rivelando il suo autentico volto autoritario - nulla di tutto questo è successo – nonostante il “bombardamento” delle BR, il processo, sia pure superando enormi difficoltà si è concluso nel rispetto delle regole e persino della identità politica degli imputati, ammessi a controinterrogare le loro vittime come Sossi - In questo modo i brigatisti sono rimasti isolati. Si sono accorti di non essere l’avanguardia di nessuno ma soltanto di se stessi. E l’isolamento fu l’inizio della fine, una delle cause decisive della crisi, lunga e ancora segnata da delitti, che di passaggio in passaggio porterà alla loro sconfitta.

Clandestinità e segreti: il muro da abbattere

Uno dei maggiori ostacoli nelle indagini contro le BR fu il sistema rigidissimo di compartimentazione e clandestinità. La segretezza fu un’arma importante del partito armato, cruciale per la propria affermazione e sopravvivenza: “Nella clandestinità costruiremo il potere proletario armato”, dichiarò Mario Moretti, componente del nucleo storico e tra i responsabili diretti del rapimento Moro.

 Quali sono state le principali difficoltà investigative e procedurali che i magistrati e le forze dell'ordine hanno affrontato nel perseguire i membri delle Brigate Rosse prima della collaborazione di Patrizio Peci, sia in termini di raccolta delle prove che di individuazione dei responsabili?

Le organizzazioni criminali terroristiche sono fondate sulla compartimentazione, sul segreto. Se non si rompe questo segreto, le indagini girano intorno all’organizzazione, magari riescono a scalfire qualcosa in superficie, ma dentro non riescono a penetrare - ma chi può rivelare i segreti dell’organizzazione terroristica? Coloro che sono stati terroristi, che, come terroristi, hanno purtroppo ucciso, rapinato sequestrato e proprio per questo i segreti li conoscono. E se li rivelano le cose per le indagini cambiano radicalmente.

Perché, se i segreti vengono rivelati agli inquirenti e da questi riscontrati come veritieri e perciò processualmente utilizzabili, gli inquirenti hanno a disposizione un grimaldello, una password per entrare dentro l’organizzazione. E possono disarticolarla dall’interno. I pentiti possono essere poco simpatici ma non è questo il punto. Dal punto di vista investigativo e giudiziario i pentiti sono assolutamente essenziali. Senza pentiti si perde. Con l’uso intelligente dei pentiti si vince. È l’esperienza, è la storia stessa della lotta al terrorismo che lo testimoniano in modo assolutamente univoco.

C'è un caso o un evento legato alle BR che ricorda particolarmente per la sua complessità o impatto emotivo?

La rappresaglia di stampo nazista contro Roberto Peci, “colpevole” di essere il fratello di Patrizio Peci, il capo colonna di Torino che pentendosi aprì la strada alla sconfitta delle Brigate Rosse. E siccome ero stato io uno dei tre magistrati che ne raccolsero le rivelazioni, si capisce bene come questo fatto terribile abbia avuto anche su di me un forte impatto emotivo. Del tutto simile a quello che proverò a Palermo, quando (avendo interrogato io Santino di Matteo, il primo pentito a rivelare dati importanti sulla esecuzione materiale della strage di Capaci, nella quale fu ucciso Falcone), dovetti poi registrare il sequestro del figlioletto di 13 anni del pentito, Giuseppe di Matteo; tenuto prigioniero per 779 giorni, alla fine strangolato e sciolto nell’acido. Due fatti, quello di Patrizio Peci e quello di Giuseppe Di Matteo, che sprofondano il genere umano negli abissi della crudeltà e, nello stesso tempo, testimoniano tragicamente l’importanza dei pentiti e il pericolo esistenziale che essi rappresentano per le organizzazioni criminali.

 Capire cosa furono davvero le Brigate Rosse significa guardare dentro le contraddizioni di un’Italia divisa, fragile, ma che è stata capace di reagire. 
La testimonianza di Gian Carlo Caselli ci ha mostrato il lato operativo della lotta al terrorismo, contro illusioni rivoluzionarie e strategia del terrore; ma sarà proprio il giugno 1975 il prossimo passaggio, in cui analizzeremo il “Sequestro Gancia – I misteri di un fallimento armato”, in occasione dei 50 anni dal tragico evento che causò la morte dell'appuntato Giovanni d'Alfonso e della terrorista Mara Cagol alla cascina Spiotta d'Arzello.

Francesco Rosso

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