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Politica | 06 giugno 2025, 08:45

"Cinque minuti per cinque anni": il nuovo appuntamento con "Futura" e il referendum sulla cittadinanza [VIDEO]

Diritti, dignità e integrazione: cosa cambia con il quinto referendum dell'8 e 9 giugno. Le riflessioni con la trasmissione di Cgil Asti

Un frame della puntata

Un frame della puntata

In vista del voto dell’8 e 9 giugno, Futura – la società che vogliamo,  trasmissione in collaborazione con Cgil Asti,  con  una nuova puntata sulla Voce di Asti”, ha acceso i riflettori sul quinto quesito referendario.

Si è parlat  di cittadinanza, o meglio, della proposta di ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza continuativa e ininterrotta in Italia necessario per presentare domanda di cittadinanza.

Non si tratta di una concessione automatica: resterebbero infatti tutti gli altri requisiti previsti dalla legge, come un sostentamento economico stabile, il rispetto degli obblighi fiscali, l’assenza di precedenti penali e una buona conoscenza della lingua italiana. I soggetti interessati da questo referendum sono persone migranti regolari, che vivono, lavorano, pagano le tasse in Italia e che, spesso, attendono da anni un riconoscimento formale della loro integrazione.

Il punto di vista sindacale: lavoratori sotto ricatto

Tra gli ospiti della puntata, Luca Quagliotti, segretario generale della CGIL di Asti, non usa mezzi termini: “Dieci anni sono troppi, creano vulnerabilità e ricattabilità”.

L’iter attuale lega la cittadinanza a un lungo e complicato percorso, durante il quale il permesso di soggiorno può essere revocato se si perde il lavoro. In questo modo, spiega Quagliotti, i lavoratori stranieri diventano “ricattabili, costretti ad accettare condizioni inaccettabili, spesso in settori ad alto rischio”. E i numeri lo confermano: il 10% della forza lavoro è composto da stranieri, ma rappresentano il 20% dei morti sul lavoro, soprattutto in agricoltura e edilizia.

“Ridurre i tempi di accesso alla cittadinanza vuol dire anche dare strumenti per uscire dal caporalato, per denunciare abusi, per avere una voce”, insiste Quagliotti. È una questione di giustizia, ma anche di equilibrio per tutto il mercato del lavoro, perché la presenza di lavoratori più tutelati rafforza le tutele di tutti, italiani inclusi.

Il CPIA e l’impegno per l’integrazione linguistica

Davide Bosso, dirigente del CPIA di Asti, porta in trasmissione la voce di chi, ogni giorno, lavora per costruire integrazione concreta attraverso l’istruzione. “I nostri studenti sono motivati, curiosi, desiderosi di partecipare alla vita del Paese. Cinque anni sono più che sufficienti per integrarsi linguisticamente e culturalmente”.

Al CPIA passano ogni anno circa 3500 studenti stranieri, provenienti da oltre 100 Paesi. Raggiungere il livello di italiano richiesto (B1) è tutt’altro che facile: “Serve studio, tempo, sacrificio, specialmente per chi lavora, ha figli o proviene da alfabeti diversi dal nostro”.

Eppure, la volontà non manca. Molti studenti del CPIA hanno lauree e professioni nel loro Paese, ma devono ricominciare da zero. E i docenti diventano per loro più che insegnanti: “Sono guide, punti di riferimento, aiutano a capire come funziona la burocrazia italiana, come muoversi nella società”.

Bosso guarda anche all’Europa: “La Finlandia integra velocemente, lo fa per rispondere alla denatalità. Noi rischiamo di perdere persone competenti, che vanno in altri Paesi dove trovano meno ostacoli”.

Amnesty e i diritti: cittadinanza negata, diritti negati

La voce più dura è forse quella di Domenico Massano, pedagogista e referente regionale di Amnesty International: “Oggi la cittadinanza è una concessione, non un diritto. E spesso arriva troppo tardi, quando la vita è già altrove”. Nel confronto europeo, l’Italia appare tra i Paesi più lenti. Francia, Germania, Olanda – ricorda Massano – richiedono 5 anni. Noi, invece, ne chiediamo 10 più almeno altri 3 per l’iter amministrativo. “Sono tempi biblici, che fanno sentire invisibili”.

Massano cita la storia di Kasy Odo, attivista, arrivata in Italia a 10 anni. Solo a 26 ha potuto presentare domanda. “Per troppo tempo si è sentita esclusa, come se il Paese in cui è cresciuta non la riconoscesse”. E poi c’è lo stigma, l’informazione distorta, la retorica del “nemico”. “Le leggi possono cambiare, ma serve anche un cambio culturale. Dobbiamo smettere di avere paura del diverso, e iniziare a vedere le persone”.

Redazione


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