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Cultura e tempo libero | 04 giugno 2025, 08:13

La guerra che non finisce: Cassieri apre Passepartout 2025 con un viaggio lucido nel cuore del conflitto russo-ucraino

Nel cortile della Biblioteca Astense il primo appuntamento di Passepartout: protagonista Alessandro Cassieri, voce RAI dai fronti di guerra e autore di uno sguardo profondo sulle radici e le prospettive del conflitto che scuote l’Europa. Oggi altri due incontri in programma

Le immagini del servizio sono di Efrem Zanchettin

Le immagini del servizio sono di Efrem Zanchettin

“Buonasera, e anche in qualche caso ben ritrovati…” — così ha esordito Alessandro Cassieri, accolto da un pubblico partecipe che si è stretto attorno alla sua analisi asciutta e coinvolgente. Due anni fa era salito sul palco di Passepartout per parlare di Ucraina e Russia, e già allora si intuiva che quel conflitto avrebbe segnato un’epoca. Da allora molto è cambiato, ma qualcosa è rimasto identico: “Siamo tornati al punto di partenza”, ha detto il giornalista, con l’amaro realismo che attraversa anche il suo libro "Tra Russia e Ucraina, diario del conflitto dalle origini a oggi", protagonista del pomeriggio.

Il tempo lungo della guerra

Cassieri non ha cercato scorciatoie, né consolazioni facili. Il suo racconto è stato una lezione di metodo, un esercizio condiviso col pubblico: partire da oggi per comprendere cosa potrà accadere domani. “Molti credono che nel 2022 ci fosse un accordo pronto, che sia stato bloccato da pressioni esterne come quelle dell’allora premier britannico Boris Johnson. Ma non è così. I fatti — e lo dico da chi quei fatti li ha vissuti — raccontano altro.”

Il riferimento è ai negoziati di Istanbul, allora come oggi ospitati nella cornice del Palazzo Ciragan. Nel 2022, ha spiegato Cassieri, “si era arrivati a un abbozzo d’intesa: l’Ucraina si dichiarava neutrale, si rinunciava all’adesione alla NATO. Ma tutto era ancora da definire. Non esisteva un testo finale, non c’erano firme. Pensare il contrario significa riscrivere la storia per comodità.”

Dentro la macchina bellica

Il giornalista ha ripercorso con dovizia di dettagli i primi mesi dell’invasione russa, i report dal Donbass, le interviste raccolte nelle città devastate dai missili. Ha parlato della manipolazione dell’informazione, della difficoltà di mantenere una narrazione pluralista in un contesto di guerra totale, dell’ambiguità degli schieramenti: “Il nostro Paese è parte dell’Alleanza Atlantica. Questo influenza il nostro sguardo. Ma il giornalismo ha il dovere di cercare i fatti, anche quando disturbano.”

Una delle chiavi del suo intervento è stata proprio questa: la necessità di costruire un racconto non ideologico, radicato nelle fonti e nell’esperienza. “I miei riferimenti principali sono gli analisti americani. E sono loro, non altri, ad aver ricostruito i veri contenuti dei negoziati di allora. Se quei documenti ci dicono che l’accordo non c’era, è su quello che dobbiamo ragionare.”

Uno sguardo sul domani

Il Cassieri di Passepartout non si è limitato a ripercorrere il passato. Ha voluto proiettare il ragionamento sul presente, partendo da una domanda cruciale: “Oggi cosa possiamo immaginare che accada domani?” Una domanda sospesa tra la speranza e il disincanto, che ha attraversato tutta la sua relazione. “A distanza di oltre tre anni dall’inizio dell’invasione, la guerra è diventata un’impasse, un pantano geopolitico. Ma non per questo dobbiamo rinunciare alla lucidità.”

Ha parlato di come si sta ristrutturando il potere russo, della stanchezza crescente in Occidente, del ruolo sempre più complesso della Turchia come mediatore, delle spinte interne all’Ucraina. E infine, di cosa significhi davvero “costruire la pace”, un’espressione spesso abusata ma che, per Cassieri, “richiede una visione e una pazienza storica. Richiede anche il coraggio di dire la verità.”

Neutralità e ritiro: un’intesa (quasi) scritta

Nel suo intervento, Cassieri mette in fila uno ad uno i punti che, nella primavera del 2022, avevano portato Mosca e Kiev a un soffio da un accordo. A Istanbul, ai tavoli del negoziato, i rappresentanti delle due delegazioni avevano sottoscritto che Kiev non sarebbe mai entrata nella NATO. L’Ucraina avrebbe rinunciato a quel “fiuto incauto”, come lo definisce Cassieri, che “qualche amministrazione americana aveva incoraggiato”, ma che era stato sconsigliato da anni da diplomatici di primo piano, da Henry Kissinger in giù.

In cambio, la Russia si sarebbe ritirata: dalle porte di Kiev e da Kharkiv, accerchiata in quei giorni, fino ai confini del Donbas, lasciando dietro di sé “centinaia di chilometri” di terreno. Un arretramento che, secondo Cassieri, indicava chiaramente la disponibilità a congelare l’invasione, e a tornare a un contesto di conflitto “a bassa intensità”, com’era stato tra il 2014 e il 2022.

La Crimea: un nodo rimandato di vent’anni

C’era anche un’intesa, seppur temporanea, sulla questione più spinosa: la Crimea. Cassieri la definisce “sempre stata russa”, ricordando come fu ceduta all’Ucraina sovietica da Krusciov negli anni Cinquanta. Le rivendicazioni – e le tensioni – attorno alla penisola, racconta, erano alimentate da nazionalisti di entrambe le parti. Ma nel 2022 si era trovata una formula: “congelare il problema per 15 o 20 anni”. Rimandare, insomma, una scelta definitiva, e nel frattempo far tacere i cannoni.

Il punto mancante: chi protegge l’Ucraina?

L’elemento che fece naufragare quell’accordo, secondo Cassieri, non fu né Kiev né Mosca. “Il problema era un altro”, afferma: “L’Ucraina, legittimamente, chiedeva garanzie di sicurezza”.
Zelensky diceva: “Io resto neutrale, ma se fra trent’anni un altro Putin decide di invadermi, chi mi difende?”. Una domanda cruciale. E dietro quella domanda, un vuoto. Cassieri sottolinea che né gli Stati Uniti né l’Europa, nel 2022, erano disposti a colmarlo.

Gli americani, spiega, “oltre una certa soglia non vogliono andare”. Trump ancora meno di Biden, “perché Trump non ha alcuna vocazione al ruolo internazionale degli Stati Uniti”. L’Europa? Semplicemente, “non era pronta”. Non aveva, e forse non ha tuttora, la forza né la volontà di garantire militarmente la sicurezza dell’Ucraina. “Che facciamo, la guerra alla Russia che ha 6000 testate nucleari?”, si chiede Cassieri. E risponde: “No. E infatti, non l’abbiamo fatta”.

Clinton e la promessa mancata: il paradosso dell’eredità post-Guerra Fredda

Quando Bill Clinton vinse le elezioni del 1992, gli Stati Uniti si affacciavano su un mondo radicalmente cambiato. Era l’alba del "momento unipolare": il Muro di Berlino era caduto da tre anni, l’Unione Sovietica si era dissolta, e per la prima volta dopo mezzo secolo Washington non aveva più davanti un nemico di pari livello. In questo clima, il candidato democratico aveva basato gran parte della sua campagna sulla promessa di tagliare drasticamente il bilancio della difesa, per riallocare quelle risorse verso settori chiave della vita civile: "meno spese militari, più scuole, più trasporti, più America", era il messaggio.

Eppure, quando Clinton lasciò la Casa Bianca nel 2001, il bilancio della difesa risultava aumentato del 30% rispetto all’inizio del suo mandato. Nonostante l’assenza di una minaccia concreta, gli investimenti militari continuarono a crescere, segnando una rottura clamorosa con le promesse elettorali. Cos’era successo?

La dottrina Wolfowitz e l'egemonia americana

Per rispondere, bisogna tornare ad aprile 1992, sei mesi prima dell’elezione di Clinton. In quel periodo, un gruppo di analisti strategici americani – poi definiti "neoconservatori" – elaborò un documento noto come dottrina Wolfowitz. Secondo questa visione, rivelata all’epoca dal New York Times, gli Stati Uniti dovevano approfittare della posizione dominante appena conquistata e impedirne il declino. "Mantenere un'intera generazione di vantaggio militare e tecnologico", si leggeva tra le righe, anche rispetto agli alleati, che dovevano essere incoraggiati ma anche "contenuti nella dimensione NATO", quindi subordinati alla guida americana.

Benché Clinton non fosse parte del gruppo neocon, molte delle sue decisioni finirono per sposarne i principi. "Clinton si trovò incastrato" da una rete di poteri fortissimi: il complesso militare-industriale, l’apparato di intelligence, ma anche una cultura politica che, uscita vittoriosa dalla Guerra Fredda, non voleva perdere terreno proprio nel momento del trionfo.

L'allargamento a Est e il monito di George Kennan

Un punto di svolta fu l’allargamento a est della NATO. Clinton, con il supporto di settori trasversali del Congresso, portò l’Alleanza Atlantica fino ai confini della Russia, accogliendo prima la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca, poi avviando il percorso per i Paesi baltici. Fu una scelta controversa, soprattutto perché si scontrava con il parere di numerosi esperti e diplomatici di primissimo piano.

Le premesse dell'invasione: segnali, promesse e paradossi

Nel quadro complesso che ha preceduto l’invasione su vasta scala dell’Ucraina, Cassieri  riportano una serie di eventi chiave che si sono svolti nei giorni immediatamente precedenti al 24 febbraio 2022. Uno degli episodi più emblematici si consumò il sabato precedente l’attacco, quando il presidente francese Emmanuel Macron e Vladimir Putin ebbero una lunga telefonata, descritta dall’Eliseo come "molto costruttiva". Tanto che Parigi annunciò con ottimismo l’avvio imminente di un "processo di de-escalation" e addirittura l’ipotesi di un incontro tra Putin e Joe Biden.

Eppure, poche ore dopo quella conversazione che sembrava aprire spiragli di dialogo, arrivò la decisione ritenuta da molti come l’inizio della fine: Putin firmò il riconoscimento ufficiale delle repubbliche separatiste di Lugansk e Donetsk, rompendo ogni equilibrio. Nel suo discorso, il presidente russo accusò l’Occidente di "dire una cosa e farne un’altra, come troppo spesso accade".

La reazione immediata dei media e di parte dell’opinione pubblica occidentale fu quella di descrivere Putin come un leader "impazzito", "malato", "sostituito da un sosia". Una narrazione che tendeva a spiegare l’accaduto come frutto di irrazionalità o disturbo psichico. Tuttavia, secondo Cassieri, c'è  un anello mancante in questa interpretazione.

Donbas, il punto cieco del racconto occidentale

Secondo quanto riportato in un’inchiesta dell’agenzia Reuters datata 19 e 20 febbraio, quindi proprio nei giorni immediatamente successivi alla telefonata con Macron e prima del riconoscimento delle repubbliche separatiste, si registrò una fortissima escalation delle violazioni del cessate il fuoco nel Donbas: oltre 1500 esplosioni furono documentate.

Per le fonti, questo episodio avrebbe avuto un peso decisivo nella scelta di Mosca. I bombardamenti, attribuiti all’esercito ucraino, avrebbero colpito aree civili del Donbas, già teatro di un conflitto congelato dal 2014. A rafforzare questa ricostruzione è il riferimento ad attacchi precedenti, come l’uso di missili Tochka-U contro la popolazione di Lugansk. "La mancanza di testimoni o giornalisti occidentali presenti nell’area – sottolinea – ha contribuito a non far percepire questa realtà nei circuiti informativi europei e americani".

La “denazificazione” e le ferite post-Maidan

Un ulteriore elemento ritenuto determinante per comprendere le motivazioni addotte da Putin fu il concetto, largamente contestato in Occidente, di “denazificazione” dell’Ucraina. Le fonti spiegano che tale retorica si appoggiava su provvedimenti del governo ucraino post-Maidan del 2014: dall’abolizione dell’uso ufficiale della lingua russa, all’introduzione di una nuova toponomastica in onore di figure come Stepan Bandera – considerato un eroe nazionale da alcuni ucraini, ma ritenuto un collaborazionista dai russi e da una parte della memoria storica europea.

Per una parte della popolazione russofona, e in particolare per Mosca, queste scelte simboliche rappresentarono "una radicale revisione dei valori identitari", percepita come offensiva e minacciosa.

In questo contesto, il gesto di Putin non viene descritto come un atto isolato o insensato, ma come una "risposta strategica a un accumulo di segnali, tensioni e provocazioni percepite", il cui punto di rottura sarebbe giunto proprio in quei giorni di febbraio.

Il prezzo dell’occasione mancata

Il finale dell’intervento è un pugno nello stomaco. Cassieri non cerca eufemismi. “Da allora sono morti almeno un milione di soldati”, dice. Forse di più. I numeri sono tenuti segreti, “ed è bene che lo siano, perché quando emergeranno saranno sconvolgenti”.
Aggiunge: “Ci sono uomini senza gambe, senza braccia, senza volto. Come i reduci della Cecenia che ho visto nelle periferie di Mosca. Spezzoni umani che oggi popolano le strade delle città russe”.

E poi la frase che sintetizza tutto il senso di amarezza: “Rischiamo di aver mancato quell’occasione, l'occasione della pace,  perché non si è voluto finire con la guerra”. Una condizione che – secondo Cassieri – non è cambiata, nemmeno oggi, nel 2025. Siamo, dice, “allo stesso punto”

Solo con molti più morti.

Il  programma di oggi

Il festival oggi continua con altri due incontri: alle 18 con Annalena Benini, direttrice del Salone del Libro di Torino, che parlerà di “Questo sconfinato presente”. In serata, alle 21, Agnese Pini, direttrice di La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino e Quotidiano Nazionale, affronterà il tema de “Il giornalismo necessario”.

Qui le foto invece dell'incontro che si è tenuto ieri con Alan Friedman su "Guerra, pace e il Nuovo Disordine Mondiale”.

Alessandro Franco

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